Nello Stretto di Malacca
Quanto è strategico per l'Italia il Mediterraneo allargato
A bordo del Morosini, gioiello della Marina italiana, in missione nel nuovo mondo sull’acqua che si spinge fino all’Indo-Pacifico. Gli equilibri, gli interessi, lo scontro tra America e Cina e la forza della nostra “naval diplomacy”
Nello Stretto di Malacca abbiamo incrociato una nave gigantesca. Mentre sfilava è apparsa la scritta ‘Italia’”, dice il capitano di Fregata Giovanni Monno, comandante del “Francesco Morosini”, quella che è considerata l’unità più moderna della Marina militare italiana. “Ecco, per me quell’immagine dà il senso della nostra missione: con noi ogni nave italiana si sente più sicura”. Quest’incontro è la rappresentazione e la spiegazione di un concetto spesso equivocato, quello di “Mediterraneo allargato”. Un concetto che considera come un continuum geopolitico e geoeconomico l’area comprendente, oltre alle coste mediterranee, il Mar Nero, il Mar Rosso e il Golfo Persico allargandosi all’Oceano indiano sino alle coste occidentali dell’India, e all’Atlantico sino al golfo di Guinea. E’ anche un concetto di cui solo da poco la politica italiana ha preso coscienza. Un processo accelerato in tempi recentissimi col rilancio di partnership strategiche con Indonesia, India e Giappone. Il 26 luglio, negli incontri di Roma con i leader di Bangladesh e Vietnam in occasione del vertice della Fao, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha esplicitamente accomunato Mediterraneo allargato e Indo Pacifico sui temi di sicurezza alimentare, climatica, energetica e difesa. Quindi, nell’incontro a Washington con il presidente Joe Biden, il Mediterraneo e l’Indo Pacifico sono stati tra i temi centrali. Il Mediterraneo come “ponte” nella strategia italiana verso l’Africa: il cosiddetto Piano Mattei, una serie di politiche per la crescita del continente per contrastare l’immigrazione ma che può servire a limitare l’espansionismo russo e cinese. L’Indo Pacifico poi, in quanto proiezione del Mediterraneo allargato potrebbe rappresentare un’alternativa all’iniziativa cinese della Belt and road. Nel colloquio col presidente Biden la premier ha annunciato che entro la fine dell’anno verrà presa una decisione sul rinnovo o no del memorandum sulla via della Seta sottoscritto nel 2019 dal governo Conte I.
L’Italia dipende al 90 per cento dal traffico marino per l’approvvigionamento di risorse e materie prime ed è particolarmente esposta a eventuali azioni che interferiscano con la libera accessibilità delle vie di comunicazione marittime. Una crisi internazionale che dovesse interessare tutta quell’area si ripercuoterebbe pesantemente anche sulla nostra economia. “Il Mediterraneo allargato è un concetto geopolitico e geostrategico nato alcuni anni fa sulla base delle esperienze operative e delle implicazioni geopolitiche degli interventi navali effettuati negli anni Settanta e Ottanta in zone che erano considerate ‘fuori area’, ovvero fuori dal Mediterraneo in senso geografico”, ha precisato l’ammiraglio Aurelio De Carolis, comandante in capo della Squadra navale, in una tavola rotonda organizzata dal Centro studi di geopolitica e strategia marittima (Cesmar) su “Mediterraneo allargato e sue implicazioni economiche e geopolitiche per l’Italia”. L’ammiraglio si riferiva anche alla spedizione navale compiuta nel 1979 nelle acque vietnamite in salvataggio dei boat people che abbandonavano il paese dopo la fine della guerra. Un episodio che meriterebbe una più vivida memoria storica e la cui dimenticanza è dimostrazione di “sea blindness”, quella cecità riguardo l’importanza del mare che sembra affliggere la cultura e la politica nazionale. In questa prospettiva economica il “fuori area” va continuamente espandendosi, sino a connettersi all’Indo-Pacifico. E’ quasi un fenomeno naturale, che ha fatto ricordare quanto scritto da Jean Grenier, maestro di Albert Camus, che vedeva il Mediterraneo come “uno spazio breve che suggerisce l’infinito”. Ha dunque un’eleganza letteraria il concetto di “Infinito Mediterraneo” espresso negli studi del Cesmar. Come spiega Giancarlo Poddighe, ex ufficiale del Genio navale ora dirigente d’impiantistica navale ed esperto di intelligence, non rappresenta un’alternativa al Mediterraneo allargato, ma il suo complemento, una flessibile opzione all’esterno di esso.
E’ uno scenario che sembra tratto da un classico dello storicismo in cui i fattori culturali sono fondanti dello sviluppo delle civiltà. Secondo Mohammed Soliman, direttore dello Strategic technologies and Cyber security program al Middle East Institute di Washington, l’Italia potrebbe avere un ruolo centrale nel costrutto indo-abramitico, un quadro strategico che ridefinisce il medio oriente come “Asia occidentale, regione che si estende dall’Egitto, sulle rive del Mediterraneo, all’India e comprende le nazioni intermedie”. Tra definizioni ed evocazioni si compone un racconto che potrebbe apparire estremo, ma solo agli occhi di chi rimane aggrappato a terra. L’Italia, invece, ha tutte le carte in regola per inserirsi in questo grande gioco: quella italiana è tra le prime quindici flotte mercantili nel mondo e la seconda europea. L’Italia è uno dei soli tre paesi al mondo, con Stati Uniti e Regno Unito, in grado di dispiegare un gruppo portaerei da cui operano i caccia F-35. Per avere la percezione fisica di una tale visione bisogna trovarsi a bordo di una nave come la Morosini. “Ha idea di quante navi italiane abbiamo incontrato? I nostri interessi si spingono sin qui”, aggiunge il comandante Monno. Oltre i vetri del “naval cockpit”, la postazione da dove si possono gestire tutte le operazioni della nave, il mare riflette il verde della costa sud di Langkawi e delle isole che la circondano, un arcipelago nella parte settentrionale dello Stretto di Malacca. Tra isole e isolotti sono allineate una cinquantina di navi militari di diversi tipi e classi. Alcune mostrano i segni del tempo, altre hanno un’apparenza fantascientifica. “La nostra è la più moderna”, afferma con orgoglio il comandante.
Partito dalla Spezia il 6 aprile, per una campagna navale che si concluderà a settembre, alla fine di maggio il Morosini è a Langkawi per partecipare al Lima, un’esposizione aeronavale in cui si decidono molti degli investimenti nel settore difesa dei paesi del sud-est asiatico e dell’Asia orientale. Un palcoscenico su cui il Morosini può mettere in evidenza le sue caratteristiche di velocità e adattabilità e il suo contenuto tecnologico. “Comunica un messaggio di proiezione sul mare che non è semplicemente aggressiva. In questa dimensione globale cerchiamo di rafforzare i rapporti a sostegno della nostra politica estera e di tutto il sistema paese, di inserire il nostro segmento produttivo nell’area e di rafforzare i rapporti a sostegno della nostra politica estera”, dice il comandante Monno. “Io la chiamo ‘Naval Diplomacy’”. Il Pattugliatore polivalente d’altura (Ppa) Morosini è la perfetta materializzazione di una nave di quinta generazione, frutto di progetti e ricerche avviate nei primi anni Duemila. Lo è per tecnologia e filosofia d’impiego: una nave altamente flessibile e modulare con capacità di assolvere più compiti. Lo scafo presenta una doppia prora che ricorda quello delle navi rostrate romane e che le permette velocità sinora inimmaginabili (in prova ha toccato i 33,7 nodi, 62,4 chilometri all’ora). La zona plancia si richiama a un’antica forma di elmo, ma anche in questo caso l’apparenza antica racchiude un contenuto ipermoderno, il “naval cockpit”: una postazione, simile al posto di pilotaggio di un aereo, che riunisce tutti i sistemi di controllo, autodifesa e attacco, navigazione e propulsione. Gestito da due soli operatori, rende più rapida ed efficiente ogni operazione e risolve il problema di contrazione del personale. “E poi c’è il fattore umano. Un cenno, uno sguardo tra di noi – anche questi sono strumenti”, dice uno degli ufficiali seduti al cockpit. A Langkawi il naval cockpit del Morosini era l’attrazione di tutti gli ufficiali delle altre marine in visita a bordo: non riuscivano a nascondere il desiderio di prendervi posizione, quasi immaginandosi in azione nelle acque da secoli scenario di confronti, scontri e traffici. La posizione di Langkawi, del resto, è una metafora dello scacchiere Indo-Pacifico, le cui mappe sono continuamente ridefinite dalla geopolitica.
Lo Stretto di Malacca, un braccio di mare di 805 chilometri dalla larghezza minima di 55, corre da nord-ovest a sud-est tra la penisola malese e l’isola indonesiana di Sumatra collegando il mar delle Andamane nell’Oceano Indiano al mar cinese meridionale nell’Oceano pacifico e quindi l’Asia orientale all’Asia del sud, medio oriente ed Europa. Già dalle pure coordinate geografiche si comprende l’importanza di questo passaggio in cui transita annualmente circa un quarto dei commerci mondiali e un terzo del petrolio e del gas liquido. Percentuali ancor maggiori per la Cina: dallo Stretto passa annualmente l’80 per cento delle sue esportazioni marittime. Per la Cina lo Stretto di Malacca è un punto di altissima criticità. Un “chokepoint”, un collo di bottiglia, che può essere facilmente bloccato dalle nazioni costiere. Soprattutto considerando che queste, in diverse forme e con diversa intensità, hanno già fatto una scelta: il multi-allineamento, stringere cioè relazioni sovrapposte con diverse grandi potenze. Per definire questa situazione di vulnerabilità, nel novembre 2003 l’allora presidente cinese Hu Jintao ha coniato l’espressione “il dilemma di Malacca”. Dilemma che il governo di Pechino cerca di risolvere riducendo la dipendenza energetica dal medio oriente e creando nuovi collegamenti terrestri alternativi in cooperazione con Russia, Asia centrale, Pakistan e Myanmar. Quest’ultimo, in particolare, è la porta cinese all’Oceano Indiano, terminale del “China-Myanmar Economic Corridor”, una delle direttrici principali della Via della Seta. In termini strategici, inoltre, la Cina sta sviluppando infrastrutture militari nella birmana Great Coco Island, circa 400 chilometri a sud di Yangon, a nord delle isole Nicobare e Andamane, base di installazioni militari indiane. Ma il dilemma resta, perché la Settima Flotta della Marina degli Stati Uniti mantiene il controllo dello Stretto, che può bloccare in caso di escalation della tensione tra America e Cina. “La Cina dipende dal mare per il proprio sostentamento ma non è ancora una nazione marittima”, commenta Giancarlo Poddighe. Secondo l’esperto del Cesmar, nonostante la Marina cinese sia ormai la più grande del mondo, con 350 navi e sottomarini, non ha ancora il dominio del mare e non è ineluttabile che riesca a ottenerlo. Paradossalmente, il maggior controllo sembra esercitato da un’armata di centinaia di pescherecci cinesi che occupano gran parte del Mar cinese meridionale.
Il confronto tra Cina e Stati Uniti si riverbera sulle nazioni del sud-est asiatico mettendole di fronte a un loro dilemma. “Come membri dell’Asean, con un vivido ricordo delle nostre grandi rivalità e delle loro devastanti conseguenze, siamo fortemente preoccupati che il peggioramento delle relazioni tra queste due potenze... costringerà inevitabilmente a scelte difficili nei nostri singoli stati”, ha dichiarato il ministro della difesa di Singapore Ng Eng Hen.
La preoccupazione sullo spostamento dell’equilibrio militare tra America e Cina e i modi di prevenire quella che è stata definita “una distopia asiatica”, sono stati al centro dell’ultimo Shangri-La Dialogue, il summit su sicurezza e difesa in Asia che prende nome dall’hotel di Singapore in cui si svolge, e sottilmente richiama l’utopia cinese del mitico regno di pace e progresso racchiuso tra le montagne himalayane. Per risolvere il “loro” dilemma i paesi dell’Asean hanno scelto di non scegliere. In realtà, dopo secoli di colonialismo hanno sviluppato una sensibilità estrema nei confronti di un sistema predatorio. Prima occidentale, oggi identificato nella trappola del debito cinese. Per proteggere la propria sovranità nazionale, quindi, stanno cercando di costituire una sorta di “grande centro” geopolitico. Soprattutto considerando il comportamento bipolare degli Stati Uniti. “Pochi paesi dell’Indo-Pacifico valutano la scelta che hanno davanti in termini dicotomici, e molti hanno già fatto una scelta: il multi-allineamento, stringere relazioni sovrapposte con diverse grandi potenze”, ha scritto Poddighe in uno dei “Quaderni Strategici” del Cesmar. “Il multi-allineamento, come quello adottato dalla Papua Nuova Guinea, non è neutralità, non è far parte di un nuovo blocco come quello dei non-allineati della Guerra fredda, ma piuttosto una decisione attiva di costruire legami amichevoli con più grandi potenze, lavorando a stretto contatto con il partner che meglio risponde agli interessi economici e di sicurezza del paese su una determinata questione”.
Una posizione che va a tutto vantaggio degli underdog. “Prima eravamo visti come degli alieni, ma la voglia di autonomie industriali ci ha messi in gioco. Da un atteggiamento molto filoamericano, i paesi del sud-est asiatico hanno capito che devono essere organizzati autonomamente perché la prima linea di difesa la devono fare loro”, dice un dirigente di una società che esponeva al Lima. “In quest’area gli equilibri sono molto labili, tutti i paesi hanno paura di essere coinvolti in uno scontro ed è aumentata la propensione a investire in Difesa e sicurezza”. Una propensione che al Lima si è concretizzata nell’acquisto da parte delle Forze Armate della Malaysia di due ATR-72 600 modificati e “altamente specializzati” per il pattugliamento navale. “Gli Stati Uniti hanno spostato la loro attenzione da questo scacchiere, questi signori si sentono in diritto e dovere di attrezzarsi. Cresce il fabbisogno di sicurezza, che alimenta l’investimento in spesa navale come deterrenza e controllo dei traffici”, conferma Pierroberto Folgiero, amministratore delegato di Fincantieri. A Langkawi l’azienda italiana presentava una nuova classe di navi, la FCX, caratterizzate da una modularità e flessibilità d’uso che sembrava pensata proprio per lo scenario Indo-Pacifico. “Oggi la piattaforma geopolitica italiana è proattiva nell’espansione nel sud-est asiatico”. Si conferma quanto detto dall’ammiraglio De Carolis nella tavola rotonda organizzata dal Cesmar. “Ci stiamo concentrando molto sullo storico ruolo di Naval Diplomacy, in particolare nella cosiddetta Capacity Building, a favore di marine non alleate ma appartenenti a paesi amici e con necessità di crescere”.
In questa prospettiva si può inquadrare anche la campagna navale della nave Morosini. Costruita da Fincantieri, dopo il Lima ha fatto rotta sull’isola indonesiana di Sulawesi, tra il Borneo e Papua per partecipare alla Multilateral Naval Exercise Komodo (Mnek) 2023 (un’esercitazione a conduzione indonesiana incentrata sulla ricerca, il salvataggio e l’evacuazione di civili), che quest’anno ha assunto particolare importanza sia per la partecipazione di una quarantina di navi di 36 marine sia soprattutto per la partecipazione della Marina americana e della Plan, la Marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese. Un’occasione, dunque, per smorzare i toni di scontro che si erano accesi pochi giorni prima durante lo Shangri-La Dialogue. Secondo Collin Koh, analista di Strategie navali di base a Singapore, la Komodo 23 è stata la dimostrazione della nuova politica di Difesa indonesiana basata su un’architettura regionale “Asean-centrica” di “pragmatica equidistanza” tra le superpotenze. Questa politica avrà un ulteriore sviluppo il prossimo settembre con la prima esercitazione navale congiunta tra le marine dell’Asean. Si svolgerà nelle acque attorno all’arcipelago di Natuna, che dà nome al mare tra la penisola malese a ovest e il Borneo a est. Un mare all’interno del teatro oceanico oggi più conteso: il Mar cinese meridionale, ormai identificato come uno dei possibili scenari di detonazione della Terza guerra mondiale sia nelle analisi strategiche sia nella fiction, come nel romanzo “2034” (l’autore, l’ammiraglio James Stavridis, è stato a capo dello Us-European Command e delle forze Nato in Europa) e nell’ultimo blockbuster cinese, “Dog Fight”, sorta di “Top Gun” in versione Chollywood, l’industria cinematografica cinese.
La scelta della “location” della Komodo 23 indica dunque la precisa volontà di affermare l’autorità dell’Asean. Ancor più quella degli “Archipelagic States” quali Indonesia, Malaysia e Filippine che rivendicano il loro diritto di controllo delle “Archipelagic Sea Lanes”. Gli stati arcipelago e i corridoi di navigazione tra le isole compongono la rete fatale delle strategie nell’Indo-Pacifico. Così, per esempio, Malaysia e Indonesia hanno posto un ennesimo dilemma: la possibile presenza di sottomarini nucleari australiani nelle loro acque. E’ un dilemma creato dopo gli accordi Aukus del 2021, che impegnano Australia, Stati Uniti e Regno Unito nella condivisione delle priorità strategiche. A questo scopo gli Stati Uniti forniranno all’Australia otto sottomarini d’attacco e propulsione nucleare (SSN) che potrebbero (per quanto tale possibilità sia per ora negata) essere armati con missili balistici nucleari (SSBNs). Ma il dubbio stesso tra la presenza di SSN o SSBNs può essere elemento di destabilizzazione o rassicurazione. Ancora una volta la “submarine diplomacy” ha un ruolo chiave negli scacchieri contemporanei. “La geopolitica si sposta nel mondo sommerso”, è il titolo di un recente articolo di “Asia Times”. Anche perché è in quel mondo che sono posati i cavi attraverso cui passano trilioni di gigabyte. Sul fondo, almeno secondo i cinesi, si possono trovare anche “le prove storiche su come il popolo cinese abbia usato il mar cinese meridionale per il suo sviluppo”. Le prove sarebbero due grandi navi d’epoca Ming che pochi mesi fa sono state scoperte sul fondale della parte nord-occidentale di quel mare. Una era carica di ceramiche per l’esportazione, l’altra di legname importato.
In realtà in quel periodo storico, attorno al XV secolo, le navi portoghesi collegavano già Europa e Asia orientale. E Malacca, per restare nella zona dove è cominciata questa storia, era stata conquistata nel 1511. Le rotte tra Asia del Sud, sud-est asiatico e Cina, in quello che ancora non aveva una precisa definizione cartografica, non furono tracciate dai navigatori cinesi bensì dai Malay del regno di Srivijaya (che comprendeva Sumatra e la penisola malese), dai Tamil dell’India del sud e poi dai mercanti arabi e persiani. Sul fondo del mar cinese meridionale, dunque, si sono scoperti molti altri relitti d’epoche antecedenti e origini diverse. E’ una storia, questa, in cui si ritrovano le radici delle idee contemporanee di Indo-Pacifico e Mediterraneo allargato. “Le acque dell’Asia scorrono attraverso un impressionante espandersi della geografia”, ha scritto Eric Tagliacozzo della Cornell University nel saggio “In Asian Waters”. “Nei secoli trascorsi sino alla nostra epoca il volume dei traffici lungo le rotte asiatiche – un’area che va dall’Africa orientale e il medio oriente sino al Giappone – è cresciuto in modo enorme, il risultato è stato una massiccia circolazione di persone, merci, religioni, cultura, tecnologia e idee”. E’ qui che si sono intrecciate le correnti di propagazione di buddismo e induismo e poi le contrastanti sovrapposizioni di islam e cristianesimo. Ci troviamo davvero in uno scenario in cui i saggi diventano romanzi, le trame si trasformano in analisi e le mappe si modificano non per la deriva dei continenti ma secondo definizioni geopolitiche. E’ accaduto così per quello che era lo spazio Asia-Pacifico, divenuto Indo-Pacifico.
Il termine è entrato nel lessico geopolitico sul finire della prima decade di questo secolo con la fusione di Oceano Indiano e Pacifico in un unico sistema strategico: il Free and Open Indo-Pacific (Foip), una strategia orientata al mantenimento dello status quo, intendendo con questo il sistema di valori e interessi fissato dagli Stati Uniti. A questo scopo bisognava tenere conto del “Fattore India”, una nazione sempre più proattiva e in crescita, interessata a espandere le sue relazioni economiche, diplomatiche e di sicurezza con le nazioni affacciate sul mar cinese meridionale e a rafforzare i suoi rapporti con l’Asean. Per gli Stati Uniti era fondamentale includere l’India nelle sue strategie di contenimento della Cina, come avvenne con l’avvio del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), un’alleanza informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti. L’alleanza sembra essersi rinsaldata negli ultimi tempi, come dimostrato dalla recente visita a Washington del premier indiano Narendra Modi, sia per il riaccendersi della rivalità fra India e Cina, sia per il comune interesse di America e India nell’allentare l’influenza di Mosca sui paesi in via di sviluppo. Intanto il Free and Open Indo-Pacific ha esteso il suo raggio d’azione alle Filippine, che il 3 giugno 2023 hanno dichiarato il loro impegno in questa strategia, nella speranza di elevare il loro status a potenza regionale ed entrare a far parte di un nuovo “Quad”. Con tali premesse è chiaro che la Cina si sia opposta all’uso del termine “Indo-Pacifico”, che ritiene un’espressione della narrazione occidentale, allo stesso modo in cui rifiuta il nome di Spratly per le isole contestate nel mar cinese meridionale, le sue Nansha Qundao. Nelle discussioni sugli assetti regionali, dunque, Pechino preferisce riferirsi allo scenario dell’Asia-Pacifico, che mette al centro l’architettura regionale e la macroarea in cui s’intrecciano le direttrici della Via della Seta (Bri), tanto che per alcuni analisti la Bri è “l’Indo-Pacifico con caratteristiche cinesi”. Allo stesso modo, secondo gli strateghi navali cinesi l’obiettivo del Free and Open Indo-Pacific altro non sarebbe che l’ennesima manifestazione di controllo sul mare. E quelle che per l’occidente sono “Operazioni per la libertà di navigazione” andrebbero meglio definite “navigazione egemonica”.
Ancora una volta nei toponimi si celano problemi molto più profondi. “Secondo me il concetto di Indo-Pacifico è basato soprattutto sulla tradizionale strategia marittima americana. Il concetto di Asia-Pacifico, al contrario, deriva dalla combinazione di un pensiero, marittimo e continentale, che ha per obiettivo la pace e la coesistenza nella nostra parte di mondo”. Così ha scritto Moon Chung-In, consigliere speciale per gli Affari esteri e la sicurezza nazionale dell’ex presidente della Corea del sud Moon Jae-in. Pensiero, il suo, che sottintende conseguenze molto più profonde e pericolose. “L’Indo-Pacifico è associato con la logica della diplomazia del blocco, della divisione geopolitica. La sostituzione dell’‘Asia’ è un problema per tutti gli asiatici ed è importante rivalutare il concetto di ‘Asia-Pacifico’ per il suo valore di inclusività, cooperazione e stabilità… In realtà io voglio enfatizzare l’importanza di prevenire uno scontro di civiltà. L’idea occidentale di dividere il mondo in stati liberali ed illiberali è ambigua e destabilizzante. Alimentare tensioni e conflitti tra i due blocchi è anche peggio”. Il dilemma evocato da Moon Chung-In è stato superato da Yoon Suk-yeol, il nuovo presidente sudcoreano, che nell’aprile scorso ha stretto un accordo col presidente Biden. Yoon, conservatore, ha dichiarato che le relazioni con gli Stati Uniti sono passate al livello superiore di “alleanza basata sulla deterrenza nucleare”: Seoul ha riaffermato il proprio impegno a non sviluppare proprie armi atomiche, ma Washington ha garantito la difesa. Così gli Stati uniti hanno programmato l’invio in Corea del sud di sottomarini classe Ohio (il primo è attraccato il 18 luglio scorso). Detti “boomers”, sono i più grandi e potenti della Marina statunitense, armati con missili a testata nucleare che possono colpire obiettivi a migliaia di chilometri. Mentre nella penisola coreana arrivava il sottomarino “Michigan” per un’operazione congiunta, a Danang, sulla costa orientale del Vietnam, al centro del Bien Dong (il Mare dell’est, come i vietnamiti chiamano il mar cinese meridionale), attraccava la portaerei Ronald Reagan, scortata da due incrociatori lanciamissili. In nome di una collaudata “diplomazia dei bambù”, tuttavia, il premier vietnamita Pham Minh Chinh si affrettava a Pechino per rassicurare la sua controparte Li Qiang.
Sempre nello stesso periodo la flotta russa del Pacifico ha iniziato le sue manovre nel Mar del Giappone e due fregate sono scese sino allo Stretto di Taiwan, in una dimostrazione di allineamento con la politica di Pechino che negli ultimi tempi sta aumentando la pressione sull’isola. Di giorno in giorno sembra che l’equilibrio nella regione divenga sempre più instabile, in quell’“impressionante espandersi della geografia” di cui parla Tagliacozzo, dove le tensioni scorrono dal Pacifico all’Indiano tra stretti, grandi isole e catene di isole, arcipelaghi e mari che cambiano nome secondo le coste che lambiscono. Mentre l’occidente e l’India guardano a est, la Cina si rivolge a ovest, ben oltre lo Stretto di Malacca e l’Oceano Indiano, sino al Mediterraneo orientale ennesimo, cruciale punto di passaggio per le sue rotte commerciali. Nel 2016 Pechino, tramite la compagnia di stato Cosco, vi ha stabilito la sua testa di ponte acquistando il porto del Pireo. Ora ha per obiettivo i porti di Genova e di Trieste e sta acquistando asset nell’area di Taranto (tramite il Ferretti Group, controllato dal gigante cinese Weichai), in posizione strategica tra Mediterraneo occidentale e orientale e sede di una base navale Nato. Si è così costituito un “Fronte Mediterraneo”. Qui l’America mantiene la sua presenza con la Sesta Flotta, ma secondo molti analisti si sta progressivamente sganciando da questo teatro per contenere l’attivismo cinese nell’Indo-Pacifico. Il fronte rischia anche di rimanere sguarnito per le cosiddette “incursioni” della Nato nell’Indo-Pacifico. La guerra in Ucraina, infatti, ha fatto temere che si possa riprodurre una situazione simile a opera della Cina e quindi è stato richiesto un maggior coinvolgimento europeo per difendere l’“architettura della sicurezza in Asia”. Nella nuova formulazione della Maritime Security Strategy dell’Unione europea (pubblicata il 10 marzo) l’Indo-Pacifico ricorre molte volte come regione di “intensa competizione geopolitica” che ha un “diretto impatto sulla sicurezza e la prosperità europea” e dove l’Ue deve estendere la propria influenza con le navi dei paesi membri. L’impegno europeo, però, anche per superare le diffidenze derivate da secoli di colonialismo, deve distaccarsi da un’immagine di “dispiegamento” di forze per manifestarsi sempre di più in termini di diplomazia navale mirata alla connessione e alla interoperabilità tra i partner. “La nostra missione è la “naval diplomacy””, ripete il comandante Monno che interpreta questa missione in modo “globale”, non solo come assistenza e supporto ad altre marine ma anche intervento italiano nella risoluzione di problemi planetari. E’ da questo principio che nasce e si sviluppa per esempio il progetto “Sea Care”: a bordo del Morosini si alternano diversi gruppi di ricercatori dell’Istituto superiore di sanità per analizzare i profili di contaminazione chimica e della facies microbiologica in diverse aree marine del pianeta. Un intervento sulla linea del recente ingresso italiano nella Indo-Pacific Oceans Initiative – uno dei sistemi di cooperazione e dialogo che caratterizzano la regione – con un ruolo di leadership negli scambi accademici e scientifici.
Quando saliamo a bordo del Morosini per una troppo breve visita, la nave ha ancora molto oceano da attraversare prima di rientrare alla base, agli inizi di settembre. Prima raggiungerà il Giappone, poi la Corea del sud. La rotta indicata sulle mappe proiettate in uno degli schermi della plancia comando alle spalle del “naval cockpit” è una lossodromica, quella che taglia tutti i meridiani con lo stesso angolo. In questo caso senza attraversare lo stretto di Taiwan, un corridoio di provocazioni. Un dilemma risolto. Ma, come ci lasciano intuire, mantenendo aperta ogni altra soluzione. Quella del Morosini e della sua Campagna Navale è una storia tra le tante che possono comporre la nuova narrazione dell’Italia sul mare. “Negli ultimi giorni ho imparato che definirci i migliori non aiuta”, afferma il comandante Monno. “Ma siamo nella condizione di poter dire la nostra tra i migliori”.
Dalle piazze ai palazzi