Negli Stati Uniti
Processo sulla mente di Trump (sapeva di dire bugie?) e sulla libertà di mentire
L’ex presidente americano rispetta solo il tribunale del popolo. Il processo è già un altro strumento nelle mani dei trumpiani che denunciano la persecuzione e la caccia alle streghe: la sanzione avrebbe dovuto essere politica prima che giudiziaria
Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti, su cui pendono 78 capi d’accusa in tre diversi processi penali più una serie di altri processi civili, ha deciso che a determinare il suo futuro non saranno i giudici ma gli elettori: il tribunale del popolo. Si candida alle presidenziali del 2024 e al momento non ha rivali interni al Partito repubblicano, ammaestra i suoi sostenitori dicendo di essere vittima di una persecuzione e ribadisce: siete voi a scegliere, siete voi che potete salvare me e quindi l’America. In estrema sintesi, è la stessa cosa che Trump ha fatto dopo le elezioni del 2020, quando disse ai suoi elettori: ci sono stati dei brogli, il vincitore sono io, aiutatemi a stabilire la verità e riportatemi alla Casa Bianca. Questo enorme “potere al popolo”, che si è già espresso in modo violento il 6 gennaio del 2021 al Campidoglio di Washington, è l’arma elettorale e di governo dell’ex presidente, lo è dal 2016 e lo è ancora più oggi visto che nessuno del Partito repubblicano è riuscito finora a convincere questo popolo che potrebbe ambire a un candidato presidente diverso, meno incendiario, meno eversivo. E come l’assalto al Congresso fu un momento decisivo del trumpismo – fu anche una gigantesca occasione mancata per i repubblicani – così l’incriminazione elaborata da Jack Smith, special prosecutor, per il piano eversivo organizzato da Trump dopo il voto del novembre del 2020 rappresenta un momento decisivo di quello che abbiamo impropriamente chiamato il post trumpismo. In questo caso infatti Smith vuole dimostrare una cosa rilevantissima e ambiziosa, cioè che Trump ha mentito sapendo di mentire.
Nelle 45 pagine del documento sui quattro capi d’accusa ricorre il termine “knowingly”, cioè Trump ha mentito con la consapevolezza di mentire. Smith circostanzia questa consapevolezza indicando tutti gli interlocutori di Trump, compresi i consiglieri “a cui chiedeva suggerimenti disinteressati”, che gli hanno più volte detto che quello che andava ripetendo non era confermato da nessun fatto, né alcun ricorso o riconteggio era andato a buon fine. Una delle prove più esplicite di questa consapevolezza la fornisce Mike Pence, l’ex vicepresidente di Trump che con i suoi appunti presi “mentre i fatti avvenivano” ha dato una grossa mano a Smith: Trump continuava a insistere con Pence perché esercitasse il proprio potere (che Pence diceva di non avere) per non certificare il risultato elettorale e all’ennesimo rifiuto di Pence, Trump gli dice: “Sei troppo onesto”. Questa frase e molte altre lasciano intendere che Trump abbia continuato a sostenere cose false e non provate dai fatti, ma Smith vuole dimostrare che l’ex presidente lo abbia fatto non soltanto deliberatamente ma anche essendo consapevole del fatto che stesse mentendo. Per questo molti media americani ieri dicevano: questo è un processo che va nella testa di Trump, e quindi nelle sue intenzioni: qui sta l’ambizione dello special prosecutor ma anche il rischio che non si possa dimostrare, in un tribunale, tale consapevolezza, perché appunto bisogna entrare nella testa e nelle intenzioni dell’imputato.
Intervistato dal Washington Post, l’avvocato Robert Kelner dice: “Penso che l’intero atto d’accusa ruoti davvero attorno alla questione delle intenzioni di Trump. Probabilmente non c’è alcuna prova schiacciante nell’atto d’accusa per quanto riguarda l’intenzione, anche se ci sono certamente molte prove circostanziali. Al centro del caso c’è in realtà una domanda metafisica, cioè se sia possibile che Donald Trump credesse davvero di aver perso le elezioni” o se invece fosse convinto di no. Continua Kelner: al processo, Smith “deve dimostrare che tutte le dichiarazioni false di Trump sull’elezione, che l’atto d’accusa riporta nei dettagli, sono state interpretate da Trump come false. Altrimenti questo diventa un caso che riguarda più il Primo emendamento, e non è lì che il governo vuole andare”. Trump crede alle bugie che dice? “Potrebbe essere una domanda senza risposta – dice l’avvocato – e questa è una delle sfide che Jack Smith deve affrontare”.
Non è l’unica. Nell’introduzione al documento di incriminazione si dice che Trump “aveva il diritto, come ogni americano, di parlare pubblicamente dei risultati elettorali e anche di sostenere, in modo falso, che c’erano stati brogli che hanno determinato il risultato finale e che era lui il vincitore”. Il Primo emendamento, che tutela la libertà di espressione, tutela anche la libertà di mentire: Smith sostiene che Trump ha infranto la legge – e che ha cospirato per ingannare gli Stati Uniti – agendo sulla base di quelle bugie, facendo pressione sui funzionari degli stati e sul suo vicepresidente. Quindi se Trump mente e i suoi co-cospiratori (ne sono indicati sei, cinque sono riconoscibili mentre il sesto è ancora misterioso) mentono con lui, stanno cospirando contro gli Stati Uniti. Ancora una volta: è una strategia ambiziosa, ma allo stesso tempo rischiosa. In tribunale Smith deve dimostrare che Trump mentiva sapendo di mentire e che la libertà di mentire, tutelata dal Primo emendamento, ha un limite nella protezione del sistema istituzionale americano – un limite inevitabilmente arbitrario.
Un atto d’accusa è soltanto una lista parziale di tutte le prove raccolte dai pubblici ministeri, ed è possibile che Smith, per proteggere i testimoni o semplicemente come sua strategia, non abbia ancora rivelato prove chiave. Secondo l’ex procuratore Jim Walden, il quarto capo d’accusa, quello secondo cui Trump ha cospirato contro il diritto degli elettori di vedere i loro voti contati, “è la polizza d’assicurazione di Smith”, la cosa più facile da dimostrare, nel caso in cui i giurati non vogliano condannare Trump per le sue intenzioni. Il rischio è evidente ed ègià un altro strumento nelle mani dei trumpiani che denunciano la persecuzione e la caccia alle streghe. Soprattutto è l’ennesima dimostrazione che la sanzione all’operato di Trump avrebbe dovuto essere politica prima che giudiziaria, perché in tribunale la mente dell’ex presidente forse non si riuscirà a decifrare mentre il compimento del suo progetto eversivo nel dibattito pubblico è già visibile, persino agli elettori repubblicani che infatti otto mesi fa, alle elezioni di metà mandato, non avevano votato i candidati più estremi selezionati da Trump.