Il caso Navalny o la tragica solitudine del dissenso russo

Giuliano Ferrara

“Liberare Navalny” dovrebbe essere una campagna internazionale visibile e rumorosa. E bisognerebbe dare ope legis a questi dissidenti la cittadinanza europea, rivendicare la libertà per i combattenti della libertà. Ma non succede alcunché 
 

La condanna a 19 anni per Alexei Navalny, oltre al resto delle altre condanne e della detenzione dura, è una mezza notizia. C’è e non c’è. Qualche protesta istituzionale, qualche alzata di spalle, basta così. Basta? Non basta. Il condannato ha evitato di morire avvelenato, è stato curato in Germania, è tornato nella Russia di Putin per continuare a testimoniare il dissenso in forme che possono o no piacere ma che in un paese ordinario, non dico liberaldemocratico ma passabilmente tollerante, è consentito senza il rischio di morte o di incarcerazione praticamente a vita nel solito universo concentrazionario. 

“Liberare Navalny” dovrebbe essere una campagna internazionale visibile e rumorosa. Ci vorrebbero fior d’appelli di intellettuali, di imprenditori, di figure pubbliche dello star system, di gente comune, di politici di ogni schieramento, di ogni paese, di lavoratori, insegnanti, militanti politici, chissà, perfino giornalisti.

Il volto di Navalny dovrebbe essere riconosciuto a prima vista, stampato su migliaia di manifesti stradali, dovrebbe diventare una bandiera di mobilitazione la sua storia, la crudeltà indecorosa del suo trattamento dopo il ritorno in patria, la freddezza con cui viene sottoposto al boia di stato che lo processa per “estremismo”, senza addebitargli alcunché in termini di fatto e bollandolo come un nemico del regime. Insieme a lui dissidenti di altro genere e natura, come Vladimir Kara-Murza, condannato a 25 anni in carcere di massima sicurezza, Ilya Yashin, un altro che non è espatriato, ha parlato pubblicamente, ha pagato e paga. Alcuni erano collaboratori di Boris Nemtsov, assassinato come un cane su un ponte non distante dal Cremlino.

E’ almeno dal 2014, dall’invasione e annessione della Crimea, e dal momento in cui cominciò a destabilizzare il Donbas per poi cercare di prendersi l’Ucraina, che Putin, incurante del passato, dell’affaire della Politkovskaja, con un senso acuto di impunità a fronte dell’opinione pubblica internazionale distratta, tampina, bastona e mette in carcere chi dissente. La carota, si fa per dire, per Khodorkovsky, liberato dopo dieci anni di carcere duro, e poi bastone per tutti. Bisognerebbe dare ope legis a questi dissidenti la cittadinanza europea, italiana francese tedesca spagnola britannica, bisognerebbe che il Papa di Roma tirasse fuori artigli poco ecologici ma molto graffianti e puliti per rivendicare la libertà per i combattenti della libertà. Ma non succede alcunché. C’è stata l’eccezione di un Nobel per alcuni dissidenti, ma nessun cordone sanitario, nessuna misura umanitaria o simbolica, è efficace al fine di penetrare nello spazio psicologico russo, dominato dagli psicotici che affollano le televisioni di regime. Navalny e gli altri sono sfrontati, coraggiosi, dicono che ce la faranno, che sopravviveranno, che alla fine prevarranno, ma sono tragicamente soli. I loro nomi non sono oggetto di convegni, di una nuova Biennale del dissenso antiputiniano, la loro vicenda non penetra nelle scuole, nelle università, il sistema dei poteri deboli e forti dell’occidente fa molto per aiutare l’Ucraina, niente o quasi per fermare la mano dei carcerieri.   

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.