invasione d'agosto

La guerra in Ucraina è iniziata in Georgia

Micol Flammini

Sono trascorsi quindici anni dall’invasione del territorio georgiano da parte di Putin. A Tbilisi, con un conflitto mai finito, il Cremlino ha cristallizzato l’arte dell’impunità ed è arrivato a un passo da Kyiv

Quindici anni fa, durante un vertice della Nato che si teneva a Bucarest, i paesi dell’Alleanza atlantica si erano convinti che il modo migliore per calmare Vladimir Putin fosse accontentarlo. In alternativa: distrarlo. A quel summit, si decise di rimandare, frenare, annullare le richieste della Georgia e dell’Ucraina di entrare nell’Alleanza atlantica, perché altrimenti il Cremlino si sarebbe irritato, avrebbe reagito, sarebbe diventato pericoloso. Vladimir Putin non ricambiò la cortesia che gli usarono i membri della Nato, con Germania e Francia in testa, e invase la Georgia: più che pericoloso si fece mortale. Prima portò i suoi mezzi militari vicino al confine georgiano con la scusa di un’esercitazione, e i soldati rimasero ben oltre la durata delle esercitazioni. Allora  il Cremlino iniziò a  organizzare l’evacuazione di donne e bambini dal territorio georgiano dell’Ossezia del sud verso quella del nord, che si trova in territorio russo. In concomitanza con le esercitazioni prima e le evacuazioni poi, da Mosca arrivavano denunce continue di abusi, violenze e atrocità commessi dai georgiani ai danni della popolazione dell’Ossezia del sud. Il presidente della Georgia era Mikheil Saakashvili, dirompente, innovatore, irruente, istrionico, e in quei giorni di confini mobili, passaggi di truppe, missioni di peacekeeping che non lo erano, esplosioni, incursioni di truppe russe nel territorio georgiano, decise di agire con cautela e  stabilì una tregua unilaterale perché voleva spingere i russi a trattare, sedersi al tavolo. Non ne avevano intenzione, preparavano l’invasione, avevano tutto pronto per l’attacco totale che partì la sera dell’8 agosto e interessò la capitale Tbilisi e anche Gori, la città di Stalin. I missili russi volarono sopra le città georgiane e gli stessi leader, che avevano pensato di assicurare la tranquillità del continente europeo e la longevità dei rapporti con Putin, cercarono di mediare la fine della guerra. Fu rapida e dolorosissima, si guadagnò il nomignolo di “guerra d’agosto”, come se fosse durata un mese, un colpo di calore, un episodio drammatico ma dimenticabile. Morirono circa duecento persone e il 20 per cento del territorio georgiano rimane ancora occupato   dalla Federazione russa e resta incastonato nel destino della Georgia come una scheggia.  

 

Oggi, i confini dell’Ossezia del sud si muovono, avanzano, Mosca continua a rosicchiare pezzi del territorio georgiano, lentamente, dividendo famiglie, case, campi. 
Durante l’attacco, che fu senza sosta, gli europei cercarono di parlare con Putin, che veemente e rabbioso disse al presidente francese Sarkozy di voler vedere Saakashvili appeso per le  palle. Il presidente americano George Bush decise di rispondere annunciando l’introduzione della sesta flotta nel Mar Nero e l’invio di caccia nelle basi Nato turche e romene: secondo diversi esperti, la decisione fece in modo che la Russia si fermasse e andrebbe replicata in Ucraina. La guerra contro Tbilisi e la guerra contro Kyiv si rincorrono, sembrano combaciare su due linee del tempo distinte, sono il passato, il futuro, l’errore da evitare l’una per l’altra. Dopo l’attacco contro la Georgia, la guerra iniziata e mai finita, gli europei rimasero fedeli al principio secondo il quale Putin, sempre più esigente, andasse accontentato. In alternativa: distratto. La Georgia è il posto in cui se non tutto, molto ha avuto inizio, dove l’orrore è rimasto impunito, dove il Cremlino ha pensato che dopotutto lasciare una scheggia di guerra è molto conveniente, è uno strumento di minaccia, di paura. Ha imparato che gli europei tendono a congelare e non a risolvere, quindi è andato avanti, ha preteso, ha minacciato: è arrivato in Ucraina.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)