Le procure di Washington. Differenze e lezioni per l'Italia, partendo dalle vicende giudiziarie di Trump
Un politico americano raramente può dire di aver “appreso dai giornali” di essere sotto inchiesta, in America non ci sono legami malati tra inquirenti e media
Quando la scorsa settimana negli Stati Uniti è diventato pubblico l’atto d’accusa contro Donald Trump per aver cercato di far saltare in aria la democrazia americana, un dato di fatto è apparso scontato e non degno di nota: fino al momento in cui il documento è stato notificato all’ex presidente, nessuno sapeva che cosa contenesse, né come ricostruzione dei fatti, né come capi d’imputazione. E’ significativo, perché le 45 pagine di quell’indictment che passerà alla storia (e che il Foglio ha proposto in traduzione lunedì in versione integrale) raccontano una vicenda, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, di cui in teoria si sapeva già tutto. Era stata al centro dei lavori pubblici di una commissione d’inchiesta del Congresso; era già stata trasformata in un “processo” politico, con il secondo impeachment deciso contro Trump; era stata analizzata nel dettaglio in una infinità di inchieste giornalistiche e ricostruita in decine di processi contro i protagonisti dell’assalto (oltre 700 sono già stati riconosciuti colpevoli e 550 condannati, con altre centinaia in attesa di giudizio).
Eppure l’atto di incriminazione conteneva novità importanti, nessuna delle quali è stata oggetto di fughe di notizie prima del deposito formale che ha reso il documento pubblico. Non si è saputo, fino a quel momento, neppure di quali e quanti reati sarebbe stato chiamato a rispondere Trump. Tutto questo in un’inchiesta federale che va avanti almeno dal novembre 2022, quando è stata affidata dall’amministrazione Biden al procuratore speciale Jack Smith. Basterebbe questo a cancellare un dubbio che potrebbe sorgere sulle vicende giudiziarie di Trump: non è che l’ex presidente è vittima di una commistione “all’italiana” tra giustizia e media che punta solo a farlo fuori? C’è anche in America un rapporto tra procure e giornalisti che utilizza le inchieste e le fughe di notizie per far politica con altri mezzi? Dopotutto siamo di fronte a un leader politico che cerca di farsi rieleggere democraticamente e che si trova nel giro di un anno nel mirino di tre inchieste giudiziarie a New York, Miami e Washington (con una quarta in arrivo in Georgia). Qualche paragone con Silvio Berlusconi, per dire, ci potrebbe anche scappare. Cosa differenzia l’inchiesta sui soldi di Trump alla pornostar Stormy Daniels, da quelle sul bunga-bunga e le olgettine? Si possono fare paralleli tra l’accusa enorme a Trump di aver cercato di sabotare il processo democratico e le accuse enormi che si susseguono da anni su Berlusconi, la mafia, gli attentati del 1993 e la nascita di Forza Italia?
Suggestioni a parte, la realtà è che in America non ci sono fughe di notizie sulle inchieste giudiziarie e non c’è niente di lontanamente paragonabile al rapporto che esiste in Italia tra inquirenti e media. Lo stesso Trump e i suoi seguaci accusano l’Amministrazione Biden e quello che loro chiamano “deep state” di Washington di star cospirando per sabotare la sua rielezione, attaccano la stampa liberal “corrotta” sostenendo che ha un’avversione ideologica per il movimento Maga (Make America Great Again), ma non parlano di legami dubbi tra procure e media. Un politico americano raramente può dire di aver “appreso dai giornali” di essere sotto inchiesta e non legge atti giudiziari sulla stampa prima di averli ricevuti formalmente, mentre le intercettazioni telefoniche o ambientali riguardano solo la lotta ai narcotrafficanti e ai terroristi, non la politica. Le “carte” non girano fino a quando non sono depositate e notificate a tutti nello stesso momento, stampa compresa.
Negli ultimi anni si ricorda solo un caso in cui atti giudiziari secretati siano usciti prima del previsto, e non si trattava di un’inchiesta, bensì di una sentenza.
E’ stato quando nel maggio 2022 dalla Corte Suprema qualcuno – mai identificato – ha fatto arrivare a “Politico” una bozza della sentenza che ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto che i giudici avrebbero poi pronunciato un mese dopo. Un tentativo di sabotare il percorso giudiziario di una sentenza storica.
Gli indictment non circolano prima di quando devono e gli stessi giornalisti non ritengono sia il loro lavoro pubblicare in anteprima un atto giudiziario (senza contare che le pene previste in questi casi sono severe). Le grandi fughe di documenti in America hanno sempre riguardato gli atti del governo, il materiale classificato, non le “carte” di un’inchiesta in corso.
Dai Pentagon Papers alle rivelazioni dei vari Snowden o Assange, l’obiettivo di attivisti e media è cercare di capire cosa “nasconde” il governo, non anticipare i contenuti di un’indagine giudiziaria che potrebbe anche finire in niente.
Proprio quest’ultimo aspetto, il fatto che non è detto che un’indagine diventi un processo, è al centro di una garanzia che hanno i potenziali imputati americani prima di diventare tali. Qui un ruolo chiave lo svolge il grand jury (o grand giurì all’italiana). L’atto di incriminazione contro Donald Trump formalmente non è stato deciso da Jack Smith, ma da un grand jury di 23 cittadini qualunque sorteggiati a caso, che hanno studiato la vicenda e lavorato in segreto per sei mesi. La procura deve convincere in primo luogo questa giuria popolare che ci sono elementi solidi per andare a processo. E il grand jury ha poteri assoluti, può ascoltare testimoni, chiedere di vedere ogni indizio, contestare la linea dei pm e alla fine anche decidere che non ci sono le condizioni per proseguire con l’inchiesta. Nel libretto che viene dato ai membri del grand jury con le istruzioni per il lavoro che dovranno fare, viene sottolineato che dovranno agire nel massimo segreto e decidere in piena coscienza, anche per tutelare la reputazione della persona sotto inchiesta ed “evitare lo stigma pubblico” legato a eventuali fughe di notizie sull’esistenza di un’inchiesta che potrebbe finire in niente.
Di quei 23 cittadini che per mesi hanno passato al setaccio tutte le prove contro Trump e ascoltato decine di testimoni, non sapremo mai niente. I loro nomi resteranno segreti e non potranno raccontare nulla. Ma l’indictment che hanno presentato è ora molto più solido di quanto lo sarebbe stato un documento nato solo negli uffici di una procura.
Quella del grand jury nei paesi di “common law” è una tradizione che risale alla Magna Charta concessa dai re inglesi del tredicesimo secolo. Nel corso del tempo divenne un organo totalmente indipendente dalla Corona e i coloni americani si sono tenuti l’istituzione anche dopo essersi liberati dal dominio inglese, perché l’hanno ritenuta una garanzia contro gli eccessi dei poteri esecutivo e giudiziario. Giusto per ricordare che quando dall’Europa, con un filo di superiorità, si parla dell’America come di una democrazia “giovane”, bisogna anche ricordarne le radici. Comprese quelle del diritto.