l'intervista

Ecco la Bielorussia, dopo tre anni di proteste, di voglia di libertà, di torture e fughe

Micol Flammini

Il 9 agosto del 2020, Lukashenka pretendeva di aver vinto le elezioni. I bielorussi scesero in strada, manifestarono con tenacia e il regime rispose con una violenza inaudita. Mikalai Zayats ci racconta cosa è cambiato a Minsk, la sua prigionia e i sogni di un paese che ha scelto la democrazia

Il Teatro Janka Kupala di Minsk è il più antico della Bielorussia, ha ospitato spettacoli, convegni, anche raduni delle Forze armate e nel 2020 ha ospitato una delle manifestazioni di dissenso contro il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka, che il 9 agosto di tre anni fa si proclamò vincitore di un’elezione in cui ordinò di sequestrare le schede elettorali. Dal  10 agosto,  le strade di Minsk si riempirono  di manifestanti pacifici che chiedevano di poter scegliere il loro presidente democraticamente, venivano picchiati dalla polizia e arrestati. Gli attori del Teatro registrarono un video per chiedere di fermare le violenze. “Avevano deciso che non avrebbero potuto recitare, ridere, saltare in scena quando i loro spettatori erano per strada a soffrire”, racconta al Foglio Mikalai Zayats, che del Teatro è stato l’addetto stampa e ha conosciuto la repressione di Lukashenka in prima persona, in una cella per quattro persone in cui erano rinchiusi in ventiquattro. “Il Teatro è stato uno degli epicentri della protesta. Gli attori hanno annunciato uno sciopero, era un punto di ritrovo che richiamava molta attenzione. La nostra era una protesta della cultura”. Una protesta della cultura per il regime era molto pericolosa, come qualsiasi protesta, come ogni forma di dissenso. Quell’agosto lunghissimo e violento fu il momento in cui Lukashenka dimostrò di essere disposto a tutto pur di rimanere al potere. 

 

Il dittatore era disposto a mettere in galera ogni suo oppositore, disposto a straziarlo con processi lunghissimi, disposto a condurlo in colonie penali, disposto a torturarlo, disposto a legarsi alla Russia pur di rimanere  in piedi, sorretto al potere. Dagli ultimi giorni di giugno, quando si è conclusa la marcia della Wagner verso Mosca, alcuni uomini della compagnia di mercenari potrebbero essere andati in Bielorussia e non si sa se questo trasferimento sia un altro pegno di fedeltà che Lukashenka sta pagando a Putin o se li abbia accolti e invitati di buon grado per rafforzare la sua presidenza e aumentare la repressione. Per Zayats “nessuno in Bielorussia pensa che la presenza degli uomini di Prigozhin sia positiva, sono persone violente che potrebbero essere in Bielorussia per portare avanti i loro piani di guerra” contro l’Ucraina, che i cittadini bielorussi non condividono. “Le decisioni sulla Bielorussia vengono prese in Russia, secondo la logica di uno stato sotto occupazione”, dice Zayats. I due paesi sono sempre più connessi e ci tengono a mostrarlo, la loro unione è una minaccia contro l’occidente che Mosca cerca di usare per spaventare e non mostrarsi isolata. Putin e Lukashenka sono due leader che rimangono al loro posto perché hanno usato la forza.

 

Russia e Bielorussia hanno anche un’altra cosa in comune: sono paesi da cui si scappa. Gli oppositori vanno via, gli attivisti vanno via, restare è sempre più pericoloso. Anche Mikalai Zayats è andato via, vive a Varsavia e ha deciso di lasciare la Bielorussia perché rimanere era un rischio e anche fuggire lo era. “Per me lasciare Minsk non è stato semplice, non era possibile che me ne andassi legalmente. Inoltre adesso tra la Bielorussia e i paesi europei c’è del filo spinato”, è stato messo quando Lukashenka ha deciso di provocare una crisi migratoria artificiale, organizzando viaggi a Minsk per persone che desideravano arrivare in Europa e spingendole contro il confine per mandare in confusione i governi europei. “Oltre al filo spinato, spiega Zayats, c’è il rischio di essere fermati da guardie di frontiera, è stressante, ma quando c’è una minaccia altrettanto forte, come nel mio caso, il rischio di una condanna, la motivazione per provarci vince su tutto”. Il processo contro Zayats era politico, per la sua partecipazione alle proteste, per il suo ruolo al fianco di Pavel Latushka, ex ministro della Cultura, ex direttore del Teatro Kupala, passato dalla parte degli oppositori. “Ora mi sto abituando alla nuova vita, il posto in cui sono stato incarcerato  era tra i più violenti.  Il trattamento che si riserva ai detenuti politici è diverso, vengono messi in celle affollate, subiscono violenze di ogni genere. Vengono privati del sonno, le guardie entrano in cella durante la notte e  costringono a ripetere nome, cognome, reati. Vengono vietate le docce, le passeggiate, i contatti esterni, le lettere”. Tutto questo Zayats l’ha vissuto. Ha vissuto l’attesa in prigione, la speranza, la disillusione, la paura. “Io e i compagni di cella ci sedevamo per terra e guardavamo il soffitto. Tutto quello che poteva esserci tolto ci veniva tolto, giorno dopo giorno”. La tortura è nella quotidianità, “nella stanza c’è un letto che ha solo lo scheletro, viene chiamato graticola e spesso è meglio mettersi a dormire per terra, ma immaginate ventiquattro persone tutte stese per terra”. 

 

La situazione della Bielorussia, dei bielorussi, è peggiorata rispetto a tre anni fa, spesso scompare dietro alle minacce di Lukashenka, di Putin, dietro ai bombardamenti in Ucraina, e la resistenza di ieri e di oggi, il sacrificio, la prigionia, le proteste sembrano evaporati. In Bielorussia tutto è diventato politico, tutto è un rischio, da fuori e da dentro i bielorussi sono convinti che la lotta iniziata tre anni fa sia ancora tutta da portare a termine. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)