la sfida del presidente
Il recinto di Biden contro la Cina
La Casa Bianca vieta il flusso di denaro americano che finisce nell’arsenale bellico di Pechino
Un segnale per le aziende americane, una lezione per i paesi considerati amici. E soprattutto un messaggio chiarissimo a Pechino: siamo disposti a tutto per contenere le vostre capacità militari e di deterrenza. Il presidente americano Joe Biden ha firmato l’altro ieri un provvedimento di cui si parlava da tempo che proibisce alle compagnie americane di investire in Cina in settori sensibili come quelli che riguardano l’intelligenza artificiale, microchip e semiconduttori e i computer quantistici. Secondo la stampa americana, la misura colpirà per lo più le società di private equity e di venture capital, ma anche gli investitori americani che hanno già costituito joint venture con i gruppi cinesi. Secondo un funzionario dell’Amministrazione Biden lo sviluppo di tecnologie sensibili in settori chiave da parte della Cina è “una minaccia alla sicurezza nazionale americana”, e l’ultimo provvedimento firmato da Biden fa parte di un più ampio sistema di controllo degli investimenti – sia in entrata sia in uscita – secondo quella che il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha definito la strategia del “piccolo cortile, recinto alto”. Non si tratta di una misura economica, ha ripetuto il funzionario americano ai giornalisti, ma di una questione di sicurezza nazionale.
La sfida cinese è inedita, e per l’Amministrazione americana è molto difficile prendere certe decisioni che sfidano i princìpi del libero commercio e del mercatismo. L’area repubblicana più anti cinese del Congresso ha criticato la scelta di Biden di limitare il provvedimento ad alcuni settori, ma è la prima volta che Washington impone questo genere di divieti: fino a oggi, il controllo governativo avveniva soltanto sugli investimenti americani che finivano direttamente nel settore militare. Il problema si è reso più evidente con la Cina, dove le aziende civili che ricevono investimenti stranieri spesso poi hanno contratti con il settore militare statale di Pechino. L’azione di Biden precede di qualche settimana il viaggio in Cina della segretaria al Commercio Gina Raimondo, e segue quello della segretaria del Tesoro Janet Yellen, che è stata a Pechino a fine luglio in un momento di riattivazione dei colloqui diplomatici tra Washington e Pechino. Durante quella visita, Yellen avrebbe anticipato le misure ai funzionari cinesi.
Il ministero del Commercio cinese ieri ha criticato il provvedimento americano, definendolo “coercizione economica” (non lo è, perché non è una punizione per delle scelte politiche di nessun paese) e contrario ai princìpi del libero mercato.
Diversi paesi potrebbero ora seguire Washington. Il Regno Unito di Rishi Sunak ha fatto sapere che “considererà con attenzione le nuove misure americane e continua a valutare i potenziali rischi per la sicurezza nazionale legati ad alcuni investimenti”. La Commissione europea si è mostrata interessata mentre l’Italia deve ancora risolvere il nodo della Via della seta cinese: secondo i dati Datenna, al 2021 circa l’80 per cento del denaro investito dalle imprese italiane in Cina o da quelle italo-cinesi proviene dall’Italia (l’importo totale è pari a più di 5,4 miliardi di euro, mentre il capitale sociale delle imprese italiane o italo-cinesi in Cina è di 6,8 miliardi di euro), e sono circa 1.336 le entità costituite in Cina. Oltre agli (pochi) investimenti diretti e alle (molte) joint venture, l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non aver mai messo sotto controllo le collaborazioni tra università cinesi e italiane nei settori più sensibili.
Dalle piazze ai palazzi