Imran Khan a Capitol nel 2019 (foto Chip Somodevilla/Getty Images) 

L'arte del populismo e della sopravvivenza di Imran Khan in Pakistan

Francesca Marino

Politicamente ottuso, è un genio del populismo più becero. Riesce a scatenare le masse, e se si votasse domani il suo partito vincerebbe con una maggioranza schiacciante, nonostante i tre anni che dovrebbe scontare

Riassunto delle puntate precedenti: il 10 aprile 2022 il premier pachistano Imran Khan veniva sfiduciato dal Parlamento e al suo posto, a capo di un governo di larghissime intese, veniva nominato primo ministro Shahbaz Sharif. Prima del voto di sfiducia, e per settimane dopo il voto, Khan gridava al complotto ai suoi danni orchestrato dagli americani e minacciava di produrne le prove. Dopo qualche mese, però, Imran smentiva la tesi del complotto, invocando invece l’aiuto di Washington per sventare la rete di bugie ai suoi danni e ai danni della democrazia pachistana messa in piedi dai generali. Nei mesi successivi, Imran si ritrovava con un centinaio circa di procedimenti giudiziari a suo carico, procedimenti che spaziano dalla ordinaria corruzione al terrorismo. Veniva infine arrestato lo scorso 9 maggio per aver venduto, intascandone i proventi, doni ricevuti nel suo ruolo di primo ministro e per aver favorito, dietro lauto compenso, un miliardario imprenditore indagato per riciclaggio dalle autorità britanniche: al suo arresto seguivano disordini in tutto il paese, con tanto di assalto a residenze e postazioni militari ed edifici pubblici. Imran veniva rilasciato, ma ai giornali è stato fatto divieto di menzionare perfino il suo nome, mentre l’esercito arrestava migliaia di persone e faceva processare da corti militari i civili arrestati. 

   
Nel frattempo Sharif, a capo di un governo di transizione che doveva in teoria soltanto proclamare nuove elezioni, è stato più o meno costretto, qualche giorno fa, a dimettersi: per nominare un nuovo premier ad interim, una figura “neutrale e di alto livello” che fissi infine la data delle sospirate elezioni. Premier che non è ancora stato eletto, visto che Shahbaz, pur dimissionario, rimane ancora in carica, ed elezioni che sembrano ancora dubbie visto che la Commissione elettorale ha avanzato tutta una serie di eccezioni che devono essere vagliate. Imran, dopo aver compiuto un tour de force su ogni possibile canale mediatico internazionale, ha registrato un video (l’ennesimo) in cui incita i suoi seguaci alla protesta pacifica e civile ed è stato nuovamente arrestato il 4 agosto. Qualche giorno dopo il suo arreso è comparso, sul magazine online The Intercept, la tanto attesa prova del complotto americano: un cablo diplomatico che descriveva l’incontro tra l’ex ambasciatore pachistano a Washington, Asad Majeed, e Donald Lu, del dipartimento di stato americano. Secondo il cablo, gli Stati Uniti sarebbero stati irritati dalla “neutralità aggressiva” di Khan verso il conflitto ucraino, e si sarebbero dichiarati favorevoli a un cambio della guardia al governo. 

  
Per i suoi sostenitori, Imran è un eroe: che si batte non soltanto contro i generali, colpevoli di volerlo fare fuori sia in senso figurato che letterale, ma anche contro il colonialista e imperialista occidente. Tutto chiaro? Non proprio. Imran ha istigato una faida tra i ranghi dei militari che lo avevano sostenuto, ma continua a dichiarare il suo amore incondizionato per le divise che proteggono la patria. E tuona contro l’occidente corrotto e infido, salvo poi rivolgersi all’occidente perché protegga la democrazia nel paese e allenti i cordoni della borsa. E’ politicamente ottuso, ma è un genio del populismo più becero. Riesce a scatenare le masse, e se si votasse domani il suo partito vincerebbe con una maggioranza schiacciante. I tre anni che dovrebbe scontare, lo squalificano per cinque anni da ogni carica pubblica. Ma se si votasse domani, non si troverebbe un candidato alternativo: Shahbaz e suo fratello Nawaz sono anziani e corrotti, e i militari non gli perdoneranno mai l’ignominiosa condanna per tradimento dell’ex generale Musharraf. Bilawal Bhutto Zardari (figlio della buonanima di Benazir) e Maryam Sharif (figlia di Nawaz) non sono al momento alternative possibili. O, almeno così sembra. 


La verità è che, a Islamabad, i primi ministri sono intercambiabili e restano al potere soltanto fino a quando seguono le direttive del generale di turno. E’ l’esercito che ha in mano l’economia del paese, è l’esercito che comanda. E siccome la storia insegna che in Pakistan la fantapolitica si rivela ogni volta al di sotto della realtà, è anche possibile che tutto questo teatro serva a riportare al potere lo stesso Imran: l’eroe della democrazia e della libertà, libero questa volta dallo stigma di essere un burattino dei militari. La democrazia, finalmente autentica, trionfa, mentre i generali dormono sonni tranquilli finalmente liberi dalle accuse di comandare di fatto il paese.

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