Hun Manet (foto Ansa)

cambi di potere

L'involuzione autoritaria e dinastica della Cambogia è un problema per l'Asia intera

Francesco Radicioni

L’autocrate Hun Sen lascia il posto di capo del governo al figlio “principino” Manet: è la fine della speranza che sia la vigilia di una stagione di aperture

“Quando l’acqua sale, i pesci mangiano le formiche; quando l’acqua scende, le formiche mangiano i pesci”. Nel momento in cui la Cambogia si prepara alla prima transizione di potere in quasi quarant’anni, un analista che vive a Phnom Penh sceglie questo antico detto khmer per spiegare perché il primo ministro Hun Sen veda nella successione al figlio l’unico modo per proteggere la sua famiglia dalle vendette politiche. Solo una manciata di giorni dopo aver annunciato di prepararsi a lasciare il potere al quarantacinquenne Hun Manet, il primo ministro cambogiano ha detto pure che potrebbe però anche decidere di  tornare alla guida del paese che governa dal 1985. “Vi avverto”, ha detto nei giorni scorsi l’uomo forte di Phnom Penh, “se la vita di mio figlio dovesse essere in pericolo, potrei dover tornare per un po’ a fare il primo ministro”. 

Lunedì il sovrano della Cambogia, Norodom Sihamoni, ha confermato di aver dato a Hun Manet l’incarico per formare un nuovo governo, ma le parole del padre del futuro primo ministro suonano come una conferma delle voci sugli striscianti malumori tra l’élite politica di Phnom Penh per questa successione dinastica. Anche se nei palazzi del potere della Cambogia si lavorava da tempo alla transizione a una nuova generazione, fino a qualche tempo fa Hun Sen assicurava che avrebbe guidato il paese ancora per qualche anno. “La decisione di anticipare la successione”,  aggiunge l’analista cambogiano, “potrebbe concedere al settantenne Hun Sen più tempo per consolidare la posizione del figlio all’interno di un sistema in cui quello che conta sono le relazioni personali e le reti clientelari”. Anche se non sarà più alla guida del governo, Hun Sen ha già chiarito che continuerà a lavorare dietro le quinte: rimarrà a capo del Partito del popolo cambogiano, mentre all’inizio del prossimo anno assumerà la presidenza del Senato garantendosi così anche l’immunità diplomatica. 

Se le transizioni di potere nei paesi autoritari sono sempre cariche di insidie, Hun Sen sta cercando un difficile equilibrismo tra gli interessi di quelli che hanno accumulato enormi ricchezze rimanendo all’ombra del potere attraverso corruzione, clientelismo e sfruttamento dell’ambiente. Per scongiurare guerre di potere tra le fazioni del partito in vista della successione, insieme a Hun Sen si faranno da parte anche altri papaveri dell’establishment cambogiano che lasceranno la loro posizione di potere in eredità a figli, parenti e amici. 

Dopo gli anni del regime dei khmer rossi e della guerra civile con la guerriglia comunista, Hun Sen ha costruito la sua legittimità politica sui decenni di pace, di stabilità e di sviluppo che è riuscito a garantire a un paese che negli anni della Guerra Fredda era stato terreno di scontro tra le grandi potenze. Anche se il futuro primo ministro non ha ancora chiarito che idee ha per il destino del paese, di certo non potrà fare affidamento sulla biografia del padre: cresciuto in una famiglia di contadini nella provincia rurale di Kampong Cham, adolescente che sbriga le commissioni per i monaci buddhisti come pagoda-boy e che poi lascia la scuola per unirsi alla guerriglia comunista. Per sfuggire a una purga interno del regime degli khmer rossi, nel 1977 Hun Sen diserta e passa il confine con il Vietnam. Quando le truppe di Hanoi invadono – secondo altri, liberano – la Cambogia dal regime di Pol Pot, Hun Sen diventa prima ministro degli Esteri e poi capo del governo. 

Cresciuto all’ombra del potere, Hun Manet è invece considerato un “principino”, paracadutato alla guida delle Forze armate cambogiane dopo essersi diplomato all’accademia militare di West Point e aver studiato nelle più prestigiose università americane e britanniche. Nonostante lo stile cosmopolita e internazionale, non è ancora chiaro se la nuova guardia del potere cambogiano sarà in grado di trasformarsi da rampolli viziati in tecnocrati capaci di affrontare le sfide che aspettano la Cambogia. Dopo che per anni l’economia è cresciuto di oltre il 7 percento l’anno e sono stati abbattuti i tassi di povertà adesso, secondo un rapporto della Banca mondiale, il debito delle famiglie cambogiane è cresciuto a un livello “eccezionalmente alto”. Se nei quattro decenni in cui è rimasto al potere Hun Sen è stato abile a dosare i privilegi per la sua rete clientelare e la cooptazione degli avversari, la dura repressione del dissenso e le concessioni alla comunità internazionale, diversi analisti sono scettici sul fatto  che Hun Manet possa  permettersi aperture all’opposizione. Alle elezioni del 2013 il Cambodia National Rescue Party aveva insidiato il monopolio del potere di Hun Sen ottenendo quasi la metà dei voti,  e subito dopo  la stretta su ogni voce di dissenso in Cambogia è stata senza precedenti: attivisti pro-democrazia arrestati o costretti all’esilio, chiusi i media indipendenti, terrorizzata la società civile che fino a una manciata di anni fa era tra le più vivaci del sud-est asiatico. Qualche mese fa, con un cavillo legale, è stato estromesso dalle elezioni anche il Candlelight party, l’unico partito d’opposizione credibile rimasto nel paese, che alle elezioni locali dello scorso anno aveva preso poco più del 20 percento dei consensi. Di fronte alle minacce di boicottaggio delle urne, la risposta è stata una nuova legge che vieta a chi si astiene di partecipare a future elezioni. Dopo una campagna elettorale in cui per le strade di Phnom Penh si vedevano solo i manifesti elettorale celesti del Partito del popolo cambogiano, alla fine di luglio la forza politica guidata da Hun Sen ha conquistato 120 dei 125 seggi dell’Assemblea nazionale.

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