niente ecoansie
Il cielo sopra Madrid si trasforma e diventa "green"
Le storiche terrazze della Movida, simbolo di libertà dopo il franchismo, sono oggi al centro della trasformazione ambientale. Con più di 250 mila ettari di spazi dedicati a piante e alberi e politiche “sostenibili”, la città spagnola ambisce a essere tra le capitali più verdi d’Europa
Il cielo sopra Madrid ovvero De Madrid al cielo, che è frase simbolo della capitale. Così diffusa in Spagna che nessuno ricorda più chi la ideò. Forse nel Siglo de Oro, perché il verso appare nel poema Baile del invierno y del verano di Luís Quiñones de Benavente. Forse nel XVIII secolo durante il regno di Carlo III dei Borbone delle Due Sicilie, considerato dai sudditi “il miglior sindaco di Madrid” per la passione con cui si dedicò a modernizzare l’impianto urbanistico della capitale, a realizzare una rete fognaria e un sistema di raccolta dei rifiuti. Rendendo la città, finalmente, vivibile.
Comunque sia, il refrain si ripete da quando lo skyline della città era fatto solo da cupole asburgiche e torri di conventi con la Sierra de Guadarrama sullo sfondo. Controcampo esatto di uno dei dipinti più noti di Goya, La Pradera de San Isidro del 1787. Quadro che documenta il costume spagnolo di condividere spazi all’aperto senza distinzione di classe. Una sorta di terraza ante diem. “Perché las terrazas sono la continuazione della passeggiata vespertina, usanza radicata a Madrid da secoli. Al Paseo de Recoletos ancora riecheggia l’eco dei caffè letterari e delle avanguardie del Novecento”, dice Ignacio Peyró, giornalista e scrittore che ha saputo coniugare gastronomia e letteratura. E aggiunge: “Siamo solo passati del agua de cebada alle coppe di gin tonic”. Dove si intende come la tradizione popolare possa diventare colta. El agua de cebada, che è parente dell’orzata, risale al Siglo de Oro, ma a Madrid non si avvista da decenni.
De Madrid al cielo. Cioè, “come si vive qui da nessuna parte”.
Un freno al desencanto del Terzo millennio, un’affermazione che vuole rappresentare l’immaginario collettivo di Madrid, la narrazione di un’ascesa al cielo. Nonostante il clima, l’ambiente e il proverbio che avverte chi abita qui, nelle terre della meseta, su ciò che l’aspetta durante l’anno: nove mesi de invierno e tre de infierno. Davvero. Talvolta d’estate a Madrid sembra “nevicare fuoco come sulle città maledette della Bibbia”, per dirla alla maniera del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, il quale attribuiva al clima “la terrificante insularità di animo dei siciliani”.
Ma qui nessuno sembra soffrire di ecoansie. Anzi. Con più di 250 mila ettari di spazi verdi e politiche “sostenibili” allineate ad Agenda 2030, Madrid ambisce a essere tra le capitali più green d’Europa. Qui i giardini verticali non sono una novità, si sta realizzando una foresta urbana lungo un perimetro di 75 chilometri attorno alla città e il municipio dal 2007 ha istituito il premio Muévete Verde per valorizzare progetti, talvolta bizzarri, come quello di piantare arbusti sui tetti degli autobus.
Le terrazze, nel senso di roof garden e non solo, fanno parte di questo contesto “ambientalista” fortemente voluto dall’amministrazione comunale. José Luis Martínez-Almeida Navasqüés, blasonato avvocato dello stato, politico del Partito popolare e sindaco di Madrid dal giugno 2019, viene affettuosamente chiamato dai concittadini Pepito Terraza, con riferimento al numero di concessioni per questi spazi che il comune sforna a e agli introiti che ne derivano.
De Madrid al cielo, dunque. Nel 1992 divenne lo slogan per definire Madrid come Capitale europea della cultura. Da allora campeggia ovunque. La scorsa estate hanno inaugurato un’enorme scultura di Manolo Paz, cubi di acciaio che si protendono verso l’alto e contengono la scritta dentro. Chi arriva a Madrid in auto ci deve passare sotto, perché è collocata su un ponte autostradale della M30, raccordo anulare attorno alla città. Non è l’unica scultura del genere. Poi il motto si ritrova negli ascensori dei musei e degli alberghi in centro, nella paccottiglia ad uso turistico, sulle t-shirt e sulle sacche che le università madrilene regalano ai ragazzi che si iscrivono, Erasmus inclusi.
Altro che: “Apriti Sesamo”. De Madrid al cielo apre un mondo. Quello dell’orgoglio madrileno. L’orgoglio di essere il fulcro della Spagna. Non solo la capitale politica, ma anche il centro fisico del paese, il chilometro zero segnato alla Puerta del Sol. E la consapevolezza di essere il pilastro su cui ancora oggi poggia il ponte che collega l’Europa all’America Latina. Come si addice agli eredi di un impero su cui non tramontava mai il sole. Qui Madrid va pronunziato Madriz, con interdentale sonora alla fine, quasi uno schiocco. Così anche il cielo risulta più castizo e più chulo, i due aggettivi connaturati alla capitale, con riferimento alla sua hispanidad integra e alla sua attrattiva irridente.
De Madrid (o Madriz) al cielo è anche la chiave di accesso al terraceo, neologismo coniato apposta per dire “andar per terrazze”. Che è sommo culto dell’ozio in Spagna. Con una precisazione. La terraza spagnola si può trovare sia a pie de calle, quindi sui marciapiedi, nelle piazze o nei parchi, sia nei piani alti di edifici pubblici, palazzi storici, musei, alberghi, fondazioni. In entrambi i casi indica uno spazio al aire libre che caffè, club, birrerie, cioccolaterie, ristoranti e quant’altro di gaudente si possa immaginare, riservano ai clienti. Aire libre si traduce “all’aperto”, certo. Ma libre significa anche “libero”, contiene in sé il seme della libertà.
Così vede il terraceo Beatriz Hernanz, poetessa e critica letteraria che a 16 anni dalla Galizia si trasferì a Madrid in quell’epoca formidabile della Transizione postfranchista. Lei, che conosce bene l’Italia e le terrazze romane, afferma sicura che “il terraceo è assolutamente democratico. E’ popolare come il raigambre, l’anima più profonda di Madrid”. Beatriz Hernanz snoda una sfilza di esempi tratti dalla narrativa e dal cinema spagnolo che lasciano intravedere quanto fosse stremata la Madrid dell’autarchia franchista e dell’isolamento internazionale. Sino “al cambio di paradigma” intervenuto con la fine dell’embargo, il concordato col Vaticano nel 1953, la visita, lo stesso anno, del presidente degli Stati Uniti Eisenhower a Madrid e la firma dei trattati che permettevano l’apertura di basi militari Usa in Spagna in cambio di aiuti economici e prestiti. Fu l’età del Desarollo, il miracolo economico che Franco lasciò gestire ai tecnocrati.
Nella calle, da sempre il luogo più abitato dagli spagnoli e soprattutto da quei tiratardi dei madrileni, non a caso chiamati los gatos, si aprirono terrazas. In quel tempo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta erano luoghi “minimi”, quasi familiari, dove andare a bere la più classica caña, una birretta da dopolavoro.
Poi, con la morte del Caudillo, sopraffatto dalla vecchiaia nel 1975, fu la volta delle piazze. E dei concerti. Si cantava la libertà con una passione che ancora emoziona chi c’era, chi era ragazzo come me.
Las terrazas si moltiplicarono di pari passo. Furono le stazioni di una Madrid en marcha. Che si scopriva postmoderna, senza essere mai stata, forse, moderna. Non furono solo occasione di tapeo, cibo in piccole porzioni come si usa in Spagna per accompagnare copas. Furono luogo di tertulias, di incontri e chiacchiere su modelli “alternativi”, talvolta trasgressivi, sempre iconoclastici. Capitava che sedessero accanto abuelos, nonni franchisti e pasotas, ragazzi magari coi capelli multicolor che si disinteressavano della vita pubblica.
Era la Movida di Madrid, esplosione di un’energia repressa da quasi quarant’anni di dittatura. Nella musica e nelle arti, fino alla fotografia, ai fumetti, ai fotoromanzi, la Movida accompagnò la Transizione politica e cambiò il volto della capitale. Venne a galla di colpo una cultura sommersa, salvata da sconosciute tribù urbane. Con una data di inizio ben precisa, il concerto che si tenne al Politécnico nel febbraio 1980, preludio del leggendario “concerto di primavera” alla Escuela de Arquitectura nel maggio 1981, otto ore di pop madrileno davanti a 15 mila persone, un’enorme terraza a cielo aperto.
Non bisogna dimenticare che la Movida, con tutto ciò che ha implicato, dal cinema di Almodóvar all’arte spagnola contemporanea, non avrebbe avuto lo stesso successo senza l’appoggio politico, istituzionale e finanziario del sindaco del tempo, Enrique Tierno Galván. Lo chiamavamo el viejo profesor. Era un mito del pensiero critico antifranchista. Sebbene fosse cattedratico alla Complutense era stato cacciato dalle università per avere appoggiato le lotte studentesche del 1965. Fu eletto sindaco di Madrid nel 1979 quando si tennero le prime votazioni amministrative, con la monarchia già costituzionale. Fu rieletto a furor di popolo nel 1983.
All’epoca las terrazas non arrivavano ancora al cielo, ma Tierno frequentava quelle a pie de calle o nei parchi, al Retiro e a Rosales. Talvolta si intratteneva con gli spazzini, categoria che riteneva, non a torto, essenziale per la vivibilità della città. Con loro, come con tutti, parlava di convivenza e di norme di comportamento urbano. Mascherava lo scetticismo della ragione con lo stile che gli era proprio, cerimonioso come un antico cavaliere, ma irremovibile. Aveva il vezzo di comunicare con i concittadini attraverso “Bandi” affissi per le strade. Monumenti di retorica forbita e desueta, da cui filtrava – intelligenti pauca – un’ironia fulminante. Chi possiede gli originali se li tiene stretti.
Tierno morì nel gennaio 1986 da sindaco in carica. Lo scrittore e giornalista Francisco Umbral, che di Madrid fece un genere letterario, lo ricordò con un libro: Y Tierno Galván ascendió a los cielos. Certo, non si può non notare che questa del cielo deve essere una fissazione. La Movida fu archiviata, divenne storia e influsso culturale, ma la parola fu esportata in tutto il mondo nell’accezione più riduttiva, quella di vita notturna movimentata e rumorosa. “Talvolta anche a Madrid, soprattutto nei quartieri alti come il Barrio de Salamanca, i residenti si infastidiscono per il chiasso che arriva dai locali”, puntualizza Margarita Souvirón de Pelegrí, viscontessa de las Torres de Luzón, esponente del Real Cuerpo de la Nobleza de Madrid. E’ lei che ricorda quando cominciò la moda di Madrid vista dall’alto. De Madrid al cielo, d’accordo. Ma anche, per completare il quadro, en el cielo un agujerito para verlo, “un buchetto per vederlo”.
Furono musei e centri culturali come il CaixaForum del Paseo del Prado ad aprire per primi spazi in alto per attrarre visitatori, prolungando al tempo stesso gli orari delle attività: esposizioni d’arte, festival di musica e poesia, laboratori multimediali per famiglie e singoli. CaixaForum è un’icona della capitale. Una ex centrale elettrica ristrutturata negli anni Duemila secondo canoni architettonici che suggeriscono uno stato di “levitazione”. Ha il giardino verticale più instagrammato di Madrid e si trova nel bel mezzo del cosiddetto paseo del arte, equidistante dai grandi musei: Prado, Reina Sofia e Thyssen-Bornemisza.
“La sera – ricorda doña Margarita – andavamo per mostre e poi ci fermavamo a cenare in alto, godendo del lungo crepuscolo di Madrid. Il miglior tramonto si vede dalla Terraza del Teatro Real, con il sole che si tuffa dietro il Palazzo reale”. La terraza preferita da Margarita Souvirón è quella del Real Club Puerta de Hierro, un circolo privato che richiede quarti di nobiltà in purezza per associarsi. Le regole sono così elitiste che perfino ottimi frequentatori di terrazze romane come Alain Elkann potrebbero sperare solo in un invito per entrare.
Però bastano cinque euro a testa per comprare l’attimo fuggente di uno dei migliori cieli sopra Madrid: il belvedere del Circulo de Bellas Artes a 56 metri di altezza. Si affaccia proprio sul centro storico, sulla monumentale fontana di Cibeles, sulla Puerta de Alcalá, ma con vista a 360 gradi che spazia fino alle montagne. Spettacolare. Se si trova posto, ci si può sedere nelle molte terrazas per pasteggiare o bere sotto la statua di bronzo della Minerva issata sul tetto del Circulo nel 1966, in pieno franchismo. Con trecentomila visitatori l’anno, il belvedere del Circulo è sempre pieno di turisti e locali, talvolta “lanzichenecchi”. Ma anche senza andare sul tetto, l’edificio costruito negli anni Venti offre sempre eventi di richiamo. Fino a settembre per il Festival internazionale di fotografia e arti visive di PHotoEspaña sono esposti i lavori dell’artista serba Marina Abramović, quelli della francese Orlan, degli spagnoli Fina Miralles e Antoni Miralda e quelli che illustrano la copertina del Festival, realizzati da Marie Hoeg e Bollette Berg, due fotografe norvegesi dedite a documentare la trasgressione di genere già all’inizio del XX secolo.
Vicino al Circulo de Bellas Artes, sulla Gran Vía, c’è la maggiore concentrazione di terrazas con vista dall’alto di Madrid. Appartengono tutte a hotel, l’ingresso è libero ma contingentato da buttafuori sulla strada, la consumazione obbligatoria. Sono così gettonate che gli alberghi hanno deciso di fare fronte comune per “vendere” al meglio il cielo di Madrid. In occasione del solstizio d’estate organizzano eventi all’insegna di Atardece que no es poco (Guarda il tramonto che non è poco), un titolo che rende omaggio al film di José Luis Cuerda del 1988: Amanece que no es poco (Svegliati che non è poco). L’albergo con la terraza più bella si trova a cento metri di altezza nell’edificio España, iconico grattacielo costruito tra il 1948 e il ’53 a Plaza de España. Panorama mozzafiato e passerella di vetro sospesa altrettanto mozzafiato.
“L’andare sempre più in alto alla ricerca di vedute inedite accomuna le città del mondo. E’ fenomeno globale. Madrid non ha fatto altro che portare più in alto tradizioni consolidate. E’ successo che qualche lustro fa le istituzioni, ma soprattutto gli alberghi, hanno capito di avere sul capo miniere d’oro”, afferma Juan Carlos Reche, poeta e traduttore di poesia italiana del Novecento. Ma è un’immagine che offre Beatriz Hernanz quella che meglio fa capire cos’è una terraza a Madrid, e che cosa significa in spagnolo compartir. Che sia vita, vino o conoscenze. E’ del tempo del Covid. Nell’autunno del 2020 Madrid divenne una delle città con meno restrizioni in Spagna. “I madrileni sono un po’ anarchici per natura – dice Beatriz Hernanz – non sopportano di vivere rinchiusi. Al aire libre si poteva stare. Il terraceo andava bene. Di conseguenza nacquero locali come funghi. Sempre pieni come se non ci fosse un domani. Fu una forma di resistenza alla pandemia”.
Ecco. Madrid me mata, “Madrid mi uccide”, sostengono beffardi i giovani a significare che nessuno riesce a sostenere il ritmo della città. Sarà per questo che ogni anno si trasferiscono da ogni dove a decine di migliaia per vivere qui? De Madrid al cielo.
L'editoriale dell'elefantino