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l'incriminazione

Per incriminare Trump in Georgia spuntano i tweet. Il contrappasso per l'ex presidente (e Giuliani)

Giulio Silvano

Nell'indagine federale sul tentativo di sovversione delle elezioni 2020 analizzati dodici tweet che indicherebbero l'atteggiamento sedizioso tenuto dall'ex presidente. Ma la responsabilità è condivisa con tutti i suoi collaboratori

A una decina di giorni dal primo dibattito per le primarie repubblicane è arrivata la notizia della quarta incriminazione per Donald J. Trump. L’ex presidente è accusato di aver voluto sovvertire il risultato delle elezioni del 2020. Trump e i suoi sapevano che stavano perdendo contro il democratico Joe Biden e, secondo l’accusa, avrebbero cercato di modificare il risultato delle elezioni nello stato della Georgia, con minacce, pressioni e richieste di favori. Trump, ad esempio, avrebbe telefonato al segretario di stato della Georgia, Brad Raffensberger, dicendogli di “trovare 11,780 voti”. Biden in Georgia aveva vinto per poche decine di migliaia di voti e quindi il risultato si sarebbe potuto facilmente ribaltare, con un effetto a livello nazionale. Ci sono altri 18 indagati in questa quarta incriminazione, tra cui l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani e l’ex chief of staff della Casa Bianca Mark Meadows, e un totale di 41 capi d’accusa. La procuratrice della contea di Fulton, Fani T. Willis, si è avvalsa della Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act), una legge nata nel 1970 con Nixon per combattere i mafiosi che spesso non compivano reati direttamente ma li facevano eseguire ai loro sottoposti. Lo stesso Giuliani, ora dall’altra parte della sbarra, ha usato la Rico più volte quando era procuratore federale, collaborando anche con Giovanni Falcone per  le famiglie del crimine organizzato newyorkese. Nell’indagine federale di Willis sono state elencate 161 azioni presunte compiute dall’ex presidente e dal suo circolo. Tra questi ci sono dodici tweet scritti da Donald Trump che indicherebbero l’atteggiamento sedizioso dell’allora presidente. Trump è stato un twittarolo indefesso. Prima ha usato il social per raggiungere uno status politico accusando l’allora presidente Barack Obama di non essere nato negli Stati Uniti, poi nelle primarie repubblicane l’ha usato per distruggere i suoi competitor e ammiccare alla destra estrema, poi contro Hillary Clinton nel 2016 l’ha usato chiedendo alle folle MAGA che venisse incarcerata, e cercando di screditare qualsiasi voce critica nei suoi confronti. Trump è arrivato alla Casa Bianca con decine di milioni di follower e ha usato la piattaforma social come megafono ufficiale della presidenza, come diario personale, come arma politica e come valvola di sfogo. Le migliaia di frasi condivise dall’account @realDonaldTrump nei quattro anni a Washington vengono considerate dalle istituzioni come dichiarazioni ufficiali della Casa Bianca, i tweet dovrebbero essere negli Archivi nazionali insieme alla copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza. Non c’era giorno in quei quattro anni in cui un tweet del presidente non finisse al centro di qualche dibattito televisivo, isolato e ingrandito sullo schermo dietro a ospiti e conduttori. Tweet sgrammaticati, concitati, contraddittori, spesso pieni di frottole, autoelogi e, quasi sempre, insulti e offese. Il New York Times ha messo insieme una “lista completa degli insulti Twitter di Trump (2015-2021)”, ingiurie ed epiteti personali, da Michael Bloomberg a George W. Bush, da Meryl Streep a Snoop Dogg, tantissimi quelli ai giornali e ai giornalisti, ma anche alle città, da San Francisco a Bruxelles (un “hell hole”). Nel 2016 twittò una frase di Benito Mussolini. Durante la pandemia screditò le politiche restrittive e chiamò il Covid il “virus cinese”. A gennaio del 2021, dopo l’assalto al Congresso, Trump venne cacciato da Twitter per incitamento alla violenza, e lui si creò il suo Twitter populista, Truth Social. I dodici Tweet evidenziati dalla procuratrice Willis fanno riferimento al modo in cui, subito dopo le elezioni, Trump ha cercato di fare pubblicamente pressione su figure che avrebbero potuto ribaltare il voto nello stato del sud. Figure come il governatore, Brian Kemp, e il segretario di stato Raffensperger, entrambi repubblicani, che si rifiutarono di dichiarare Trump il vincitore in Georgia, entrando immediatamente nella lista dei “traditori”. Ci sono poi i Tweet del presidente che difendono le accuse di brogli e irregolarità fatte dai suoi alleati, come Giuliani che andò in Georgia per dire che i democratici stavano manipolando i voti nei seggi. E poi i tweet scritti per convincere l’allora vicepresidente Mike Pence, che nel suo ruolo aveva il potere di certificare i voti. “Gli stati vogliono correggere i loro voti, ora che sanno che sono stati basati su irregolarità e brogli”, twittava Trump. “Tutto ciò che Mike Pence deve fare è rimandarli agli stati E NOI VINCIAMO. Fallo, Mike, questo è il momento per un atto di estremo coraggio!”. Le indagini in Georgia mostrano che Trump non poteva portare avanti questo tentativo di colpo di stato da solo, e che la responsabilità va condivisa con membri del partito, avvocati personali e altre figure vicine a lui. I tweet di quei giorni  provano che Trump volesse in ogni modo restare nello Studio Ovale. L’intenzione, se poi ci sono dei fatti – come l’assalto al Campidoglio – diventa un elemento fondamentale di fronte alla legge. Insomma, tutto quello che dici su Twitter potrà essere usato contro di te in tribunale. 

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