produzione bellica
Chi lavora nelle fabbriche russe per produrre droni iraniani? Studenti da (quasi) tutto il mondo
Attirati dall'Alabuga Polytechnic College, centinaia di giovani sono impiegati in turni infiniti alla catena di montaggio per produrre velivoli da venderere a Teheran, con compiti e paghe tarati sul paese di provenienza
Il fatto che la Russia abbia iniziato a produrre in autonomia droni iraniani nella repubblica federale del Tatarstan, dopo averli “semplicemente” acquistati per mesi da Teheran, è cosa nota fin da luglio. Ma ora nuove indiscrezioni stanno emergendo sui contorni di questa vicenda. Secondo quanto inizialmente riportato dal media online Protokol in un’indagine condotta in collaborazione con il canale YouTube Razvorot, l’assemblaggio dei velivoli senza pilota avviene nella zona economica speciale di Alabuga e questi ultimi vengono poi usati dalle Forze armate russe sul fronte ucraino. In seguito, è stato però reso noto anche che centinaia di studenti e studentesse russi e di paesi emergenti – provenienti soprattutto dall’Africa ma anche dall’Asia centrale e in particolare dal Tagikistan – sarebbero stati tratti in inganno per sfruttare la loro manodopera in turni massacranti di lavoro.
Tutto questo è stato possibile perché nella stessa zona è attivo anche l’Alabuga Polytechnic College, inaugurato nell’aprile del 2021 nientemeno che dal presidente del Tatarstan, Rustam Minnikhanov. Fin da subito l’istituto è stato presentato come un centro di formazione tecnologica di eccellenza in cui poter associare attività di studio e messa in pratica, retribuita, di quanto appreso. Nessuno sforzo per accrescere la visibilità del centro è stato tralasciato, tra campagne di comunicazione sui social, pubblicità accattivanti e influencer. Anche alcune delle app di appuntamenti più famose, tra cui Tinder, sono state usate per attirare sul Politecnico l’attenzione di giovani provenienti dai paesi emergenti: il meccanismo, molto semplice, prevedeva il rilascio agli studenti già iscritti di account premium delle varie app utilizzate e di una sorta di copione in inglese da usare nelle comunicazioni, in modo da sfruttarli come “testimonial”.
Al di là delle carenze sul fronte organizzativo dell’istituto, palesi fin dall’inizio della sua attività, recentemente è però anche emerso che un folto gruppo di studenti e studentesse avrebbe visto il proprio percorso di apprendimento pratico trasformarsi in turni infiniti alla catena di montaggio per la produzione dei droni iraniani Shahed, utilizzati poi dal Cremlino in Ucraina. Quest’attività sarebbe svolta sotto uno strettissimo monitoraggio da parte delle autorità – che controllano anche la corrispondenza verso l’esterno – e sulla base del divieto assoluto di divulgare informazioni in merito a quanto avviene nell’impianto coinvolto, che occupa una superficie di circa 40mila metri quadri, come sei campi da calcio. Per mantenere la segretezza del progetto è anche utilizzato un linguaggio in codice, che identifica i droni come “barche” e l’Iran come Bielorussia. La retribuzione garantita agli studenti coinvolti sarebbe inoltre molto inferiore a quella sbandierata nelle sue comunicazioni dall’istituto per pubblicizzare la possibilità di alternare studio a lavoro. Non tutti riceverebbero oltretutto lo stesso trattamento: agli studenti provenienti da paesi come Uganda, Etiopia e Tanzania, sarebbero riservati i lavori manuali più umili mentre a quelli provenienti dal Tagikistan sarebbe riservato il rapporto con i tecnici iraniani e russi. Questo perché generalmente i cittadini tagichi conoscono sia la lingua russa sia la lingua nazionale della repubblica centro asiatica, molto simile al farsi parlato in Iran.
Avere a disposizione lavoratori con competenze linguistiche specifiche è fondamentale perché la fabbricazione di droni avviene sulla base di un accordo di “franchising” stipulato con Teheran del valore di circa 1,5 milioni di dollari e tutta la componentistica viene fornita direttamente dalla Repubblica islamica. L’obiettivo di Mosca è però rendersi indipendente dall’Iran entro i prossimi due-tre anni, fabbricando localmente i componenti necessari e rendendo in questo modo autonomo il processo di produzione.
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