La pazienza di Zelensky

Micol Flammini

Non è soltanto la virtù dei forti, ma la compagna della necessità. Non è del capo del Cremlino, ma del presidente ucraino, che paziente aspetta e ottiene, anche gli F-16 o i risultati della controffensiva lenta 

La pazienza, si dice, è la virtù di chi possiede anche la forza. E così  è stato per secoli, così  era certamente per il generale Kutuzov quando in “Guerra e pace” suggeriva che per vincere contro Napoleone ci volevano due combattenti chiamati “tempo e pazienza”. Questa guerra, la seconda invasione dell’Ucraina da parte della Russia – la prima è iniziata nel 2014 – sta dimostrando che la pazienza è anche la virtù dei bisognosi, è compagna della necessità. La Russia di Vladimir Putin non è quella di Kutuzov, non è invasa, invade. E Putin, l’invasore, è tutt’altro che paziente, voleva conquistare Kyiv con la voracità, non sostenuta da calcoli esatti e né dalla buona preparazione. Ora aspetta che siano gli altri a cedere, che l’Ucraina stremata gli conceda una vittoria, seppur ridotta rispetto alle sue aspettative iniziali, che gli alleati abbandonino Kyiv, si stanchino e diano un contentino territoriale all’uomo che ha messo sottosopra il mondo. Chi invece non può far altro che essere paziente, perché è in uno stato di necessità, è Volodymyr Zelensky, che ogni concessione deve guadagnarsela, così come ogni appoggio internazionale, ogni carro armato. Ieri gli Stati Uniti hanno approvato l’invio di alcuni  caccia F-16 all’Ucraina. Danimarca e Paesi Bassi potranno mandare i loro aerei dopo che i piloti ucraini avranno finito l’addestramento. Gli F-16 contribuiranno alla difesa dei cieli  e Kyiv li chiede  dall’inizio della guerra. Durante il vertice del G7 a Hiroshima aveva preso forma, in presenza di Zelensky, una coalizione dei jet con i paesi disposti a mandare i loro caccia in Ucraina o ad addestrare i piloti. Era maggio. 


Al vertice della Nato a Vilnius – quando il presidente ucraino è arrivato con la speranza che si sancisse l’ingresso del suo paese nell’Alleanza atlantica ma gli è stata chiesta, appunto, pazienza – la domanda che più circolava era: quando arrivano i jet? Gli ucraini dicevano di chiederlo agli americani, gli americani rispondevano: arriveranno. Era luglio. Ora non si sa quando arriveranno, si sa che arriveranno, Andri Yermak, capo dell’ufficio del presidente, ha gioito twittando l’immagine di un aeroplanino. 

 

Ieri il Washington Post ha pubblicato un articolo in cui fonti dell’intelligence americana riportavano le loro valutazioni sulla controffensiva ucraina: va a rilento e non riuscirà a raggiungere  Melitopol quest’anno, punto di arrivo essenziale per spezzare il ponte di terra che collega i russi alla Crimea, si trova all’incrocio tra due autostrade e una linea ferroviaria che consentono a Mosca di spostare uomini e mezzi dalla penisola verso gli altri territori occupati. I funzionari che hanno parlato con il giornale americano dicono che nella prima settimana della controffensiva, gli ucraini hanno subìto molte perdite, le difese russe erano meglio preparate rispetto allo scorso anno e diverse attrezzature occidentali sono state distrutte. Il rischio di perdere del materiale era calcolato, ma i piani americani e britannici prevedevano anche le perdite umane, che Kyiv accettasse le sue vittime come costo da pagare per sfondare. Invece l’Ucraina ha preferito limitare le perdite, passando a una tattica basata su unità piccole che avanzano un po’ alla volta, ma non sfondano. Il Pentagono si era raccomandato di concentrare una grande massa su unico punto di svolta,  Kyiv ha scelto altro e il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, riconoscendo la lentezza della controffensiva, ha detto: “Non ci interessa quanto tempo ci vorrà”. Gli ucraini sminano, millimetro dopo millimetro, vanno lenti, non possono essere voraci. Hanno imparato a mandare i loro droni in Russia, anche a colpire risorse in territorio russo – ieri è andato a fuoco il terminal petrolifero di Novorossijsk – non hanno paura del tempo. Ma sanno usare la pazienza, perché ne hanno bisogno. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)