il calcio tra innovazione e geopolitica
Come dribblare i sauditi
Il calciomercato miliardario dell’Arabia è l’evento dell’estate. Ma da anni il regno saudita punta sul softpower sportivo e turistico e sugli investimenti tecnologici. Opportunità e rischi per le società libere
Sono stati i protagonisti dell’estate, forse persino più dei cornificatori di Torino. Sono stati i mattatori del calciomercato. Sono stati la novità del mondo del calcio. E con i loro quattrini, i loro acquisti, le loro strategie hanno costretto il mondo, non solo quello calcistico, a interrogarsi: che fare con i soldi sauditi? Occorre considerare gli sceicchi come aggressori o come un’opportunità? Occorre considerarli una manna dal cielo o una grave minaccia alle società aperte?
Breve ripasso, per provare a ragionare. I sauditi, lo sapete, hanno scelto ormai da anni di investire forte sull’intrattenimento, provando a sfruttare tutti i suoi rami. Lo hanno fatto attraverso l’industria cinematografica (l’Arabia Saudita è l’unico tra i paesi islamici del medioriente ad aver accettato di proiettare “Barbie”). Lo hanno fatto attraverso la musica (i più redditizi dj set mondiali oggi sono attorno a Riad). Lo hanno fatto attraverso l’architettura (Riad è una città in costruzione perenne, i più importanti studi di architetti e di urbanisti del mondo hanno trasformato l’Arabia in una nuova fonte di redditi insperati). Lo hanno fatto attraverso la tecnologia (uno dei fondi di investimento sauditi è tra gli azionisti di Twitter). Lo stanno facendo attraverso i vettori del turismo (il regime saudita ha annunciato di voler trasformare la propria compagnia di bandiera nella migliore del mondo, lanciando dunque una sfida alle due compagnie dei vicini emirati arabi, Emirates ed Etihad, e il governo vuole portare il turismo a pesare il 10 per cento del pil entro il 2030, contro il 3 per cento del 2019). E lo hanno fatto in modo copioso non solo con il calcio (i movimenti dei sauditi in questo settore rispecchiano un aumento dei flussi di capitale istituzionale nello sport: dall’inizio del 2020 sono stati impiegati oltre 100 miliardi di dollari di liquidità di private equity). Ma lo hanno fatto più in generale con lo sport. Con il golf (l’ente principale americano, il Pga Tour, ha appena concordato una fusione con il “Liv Golf”, un nuovo torneo saudita), con la Formula 1 (a Gedda vi è già un gran premio, vicino a Riad si lavora per organizzare un’altra pista, Saudi Aramco è tra i principali sponsor della Formula 1) e persino con gli sport invernali (nonostante il clima, ospiteranno i Giochi invernali asiatici nel 2029). Negli ultimi tre anni sono stati spesi, per lo sport, circa 10 miliardi di euro, compresi anche i milioni stanziati per organizzare le finali delle supercoppe italiane, spagnole ed europee. E il calcio rientra tra gli investimenti della famiglia reale saudita non solo per il tentativo di conquistare i Mondiali 2030, ma anche per il sostegno diretto alle squadre della Serie A saudita, foraggiate nella loro campagna dal Fondo per gli investimenti pubblici (Pif) e persino dalla compagnia petrolifera Saudi Aramco. E questo è quello che è successo.
Nel 2021, un consorzio guidato dai sauditi ha preso il controllo del Newcastle United per 391 milioni di dollari (qualche anno prima i vicini di casa degli Emirati Arabi avevano invece acquisito il Manchester City). E dal 2022 è iniziata la campagna acquisti. L’Al Ittihad ha ingaggiato Karim Benzema, Pallone d’oro 2022, e N’Golo Kanté, stella del Chelsea; Cristiano Ronaldo, cinque volte vincitore del Pallone d’oro, si è trasferito all’Al Nassr a gennaio dal Manchester United. Con lui sono andati Sadio Mané e Marcelo Brozovic. Il capitano del Liverpool, Jordan Henderson, ha firmato per l’Al Ettifaq. Neymar, star del Brasile, è appena stato acquistato dall’Al Hilal. Lionel Messi, approdato a Miami, è un ambasciatore del turismo saudita ed è profumatamente pagato per offrire ai suoi 482 milioni di follower su Instagram immagini deliziose dell’Arabia. Le squadre del campionato saudita, ha calcolato l’Economist, hanno speso in questi mesi più di 480 milioni di dollari in compensi, solo quest’estate, e l’investimento nel calcio ha ovviamente ragioni diverse. La più ovvia è provare a ripulirsi l’immagine trasformando il calcio in uno strumento di soft-power, portando avanti una sorta di rebranding nazionale (la squadra di calcio femminile saudita è entrata per la prima volta nel ranking Fifa (171° posto) a marzo: fatto notevole per un paese dove nel 2018 le donne non potevano neppure guidare) Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita, ha bisogno di ripristinare la sua reputazione offuscata in occidente a causa della mancanza di libertà democratiche in Arabia Saudita, la soppressione di molti diritti, l’assenza della democrazia, il dissenso vietato, per non parlare del coinvolgimento nell’assassinio di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul nel 2018.
La meno ovvia è quella segnalata ancora dall’Economist. Il regno, scrive il settimanale, vuole che la Saudi Pro League attiri investimenti e fan, mira ad accogliere 100 milioni di visitatori all’anno entro il 2030 (erano 64 milioni nel 2021) e vuole trasformare il calcio in un simbolo del suo tentativo di diversificare la sua economia portandola più lontana dal petrolio attraverso la promozione di nuove filiere, nuove industrie e graduali liberalizzazioni dell’economia, ovviamente con il calcio. Il New Statesman ha aggiunto un elemento in più per inquadrare il tema e ha suggerito di ragionare anche sulle dinamiche ambientali. La forza con cui l’occidente si sta dando da fare per combattere il cambiamento climatico ha spinto l’Arabia Saudita a ragionare sulla precarietà del suo modello di business fondato sul petrolio. I sauditi non hanno alcun desiderio di ridurre rapidamente la produzione di combustibili fossili – anzi, l’anno scorso alla Cop27 di Sharm el Sheikh, il regno saudita si è unito alla Cina per ammorbidire la dichiarazione finale sull’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili. Ma allo stesso tempo vogliono evitare di puntare tutte le fiches sull’asset potenzialmente rischioso: quello del petrolio, appunto. Diversificare il business diventa dunque cruciale anche da questo punto di vista. E a maggio, non a caso, l’Arabia Saudita ha firmato un accordo per costruire un impianto di produzione di idrogeno verde con un investimento di 8,4 miliardi di dollari, oltre a ulteriori 6,7 miliardi di dollari per l’ingegneria, l’approvvigionamento e la costruzione dell’impianto.
Lo tsunami saudita nel mondo del pallone, però, costringe a ragionare anche su altro. E porta a riflettere su un doppio tema. Un tema riguarda il futuro del calcio, un altro tema riguarda il futuro delle democrazie avanzate. La domanda da porsi è sempre la stessa: che fare? Indignarsi? Diffidare? Respingere? Allarmarsi? Chiudersi a riccio? Alzare barricate? Sul fronte sportivo, l’obiezione a cui è necessario rispondere è ovvia: avere società che non hanno limiti di budget ucciderà il calcio occidentale, sottraendo i suoi migliori talenti, oppure no? La risposta è no.
I soldi sauditi non uccideranno il calcio europeo ma offriranno due opportunità importanti. Immetteranno liquidità insperata in campionati economicamente in difficoltà. Daranno un incentivo a trasformare in moneta sonante la capacità delle singole società di valorizzare talenti. Costringeranno i paesi con i campionati più raffazzonati a farsi in quattro per cercare di rendere il proprio calcio più profittevole (il calcio europeo costa oltre 7 miliardi di dollari all’anno, esclusi gli stipendi dei giocatori, e non va in pareggio e può beneficiare di denaro fresco). E, in definitiva, creeranno una concorrenza potenzialmente virtuosa: se ci sono paesi che hanno la possibilità di spendere molti soldi per attirare i talenti occorrerà inventarsi qualcosa di nuovo per fare più soldi, per creare più spettacolo e per provare a trattenere i talenti (detto tra parentesi: non si può essere romanticamente depressi per la fuga dei talenti in Arabia ed essere anche romanticamente prevenuti rispetto alla possibilità che il calcio europeo cerchi dei modi innovativi, come la Super Lega, per raccogliere di più con i diritti tv). Sul secondo fronte, invece, le cose sono più complesse e la domanda a cui vale la pena rispondere è questa: fino a che punto si possono fare affari con i sauditi? E più in generale: quali sono le barriere che le democrazie mature devono innalzare per non legittimare i regimi, le autocrazie e i paesi canaglia? Il punto, dunque, riguarda la legittimità o meno che, fuori dal mondo sportivo, i paesi liberi facciano affari con i paesi non liberi. In astratto, la risposta dovrebbe essere ovvia: certo che no. Nel concreto, la risposta è meno ovvia e tende a coincidere, cinicamente, con un ovvio che sì. La globalizzazione tra amici è purtroppo un’utopia e scegliere di non fare affari con quelli che si considerano paesi canaglia significa semplicemente lasciare campo libero a qualcun altro.
Dunque, che fare? Che fare con un paese come l’Arabia Saudita? Che fare con un paese dove i diritti sono limitati, dove la libertà è compressa? La risposta è difficile ma forse il ragionamento semplice. Occorre fare poco sui temi piccoli e molto sui temi grandi. Non c’è da scandalizzarsi, per esempio, se l’America e l’Europa hanno scambiato 140 miliardi di dollari con l’Arabia Saudita nel 2022, inclusi petrolio e armi. Non c’è da scandalizzarsi, ancora, se l’Italia ha aumentato del 24 per cento rispetto al 2021 le sue esportazioni in Arabia Saudita (4,1 miliardi). Non c’è da scandalizzarsi se Giorgia Meloni ha chiesto ai sauditi di investire in un fondo da un miliardo di dollari per il suo paese. E non c’è da scandalizzarsi perché per quanto un paese come l’Arabia Saudita possa tentare di addolcire la sua reputazione nel mondo la stagione in cui ci troviamo oggi ci insegna che il vero discrimine tra essere un paese affidabile, in cui investire, e un paese non affidabile, da abbracciare con prudenza, non ha a che fare con i soldi spesi nel calcio, nello spettacolo, nella cultura, nell’architettura ma ha a che fare con un fattore che nessun regime potrà mai offrire: trasparenza, democrazia, libertà. Dal punto di vista geopolitico, i sauditi sono insidiosi perché stanno cercando di agganciare i Brics pompando soldi sull’idea di un ordine mondiale diverso da quello delineato a Bretton Woods. Ma per arginare il potere dei sauditi non ha senso indignarsi sui soldi che pompano per esercitare il soft-power. Ha senso essere consapevoli che i paesi del G7 devono riformare le loro istituzioni, devono diventare protagonisti della transizione energetica, devono darsi obiettivi ambiziosi e devono cercare in ogni modo di dividersi i compiti evitando che i nuovi e vecchi giganti, India, Indonesia, Brasile, Cina, siano lasciati nelle mani dei competitor dell’occidente. La concorrenza dei sauditi è preziosa. Vale nel calcio, vale in economia, vale nelle istituzioni. E per quanto i sauditi possano comprare giocatori spendendo cifre folli, le società aperte sanno che c’è qualcosa che i regimi illiberali non potranno mai avere: la possibilità di mettere in mostra l’affidabilità che solo una democrazia libera può offrire al mondo.