La prova di Modi
L'india verso il voto, tra odio e orrori
Aumenta la violenza religiosa ed etnica a pochi mesi dalle elezioni politiche nazionali. Ma gli stupri di gruppo e i musulmani trucidati non fanno vacillare Narendra Modi, ancora il grande favorito
Mancano ormai poco più di otto mesi alle prossime elezioni politiche nazionali e l’India sembra precipitare in un nuovo vortice di violenza: religiosa, etnica e sessuale. Eccone tre casi.
Uno. Il treno Jaipur-Mumbai Central Superfast Express viaggia, in orario e a velocità sostenuta, diretto verso la capitale del Maharashtra. Come in tutti i treni indiani a lunga percorrenza, è presente nel convoglio una piccola pattuglia di poliziotti della Railway Protection Force. Sono in cinque. Il capo del drappello, il viceispettore Tikaram Meena, e il poliziotto Chetan Singh, sono nella carrozza di testa. Gli altri tre uomini in divisa sono seduti nell’ultimo vagone. Tikaram Meena è un uomo affabile. Ha 57 anni ed è a soli nove mesi dalla pensione. Chetan Singh gli dice di non sentirsi bene e di voler scendere appena il treno si fermerà in una stazione. Il suo superiore lo invita a sedersi e a riposare. Nel frattempo telefona alla sala di controllo e chiede che, nella stazione di Vapi, Chetan Singh possa scendere ed essere sostituito da un altro poliziotto. Chetan Singh sembra assopirsi. Quando riapre gli occhi dice di sentirsi meglio e di voler proseguire il viaggio fino all’arrivo. Tikaram Meena va in bagno. Quando esce dalla toilette della carrozza, Chetan Singh gli spara a bruciapelo con il fucile d’assalto automatico e lo uccide. Singh si mette a quel punto alla ricerca di passeggeri con evidenti segni di identità musulmana. La barba sarà allora la loro condanna a morte.
Nello stesso vagone B5, Chetan Singh uccide il primo passeggero. L’uomo ha una barba grigia, appuntita e ben modellata. (Si chiamava Kaderbhai Bhanpurwala, aveva 60 anni ed era musulmano). Singh attraversa le carrozze B4 e B3 senza sparare. Nel vagone B2 individua una nuova vittima. Ha una corta barba nera che gli circonda il viso rotondo. Le guance sono invece rasate. Il poliziotto della Railway Protection Force lo fa alzare dal sedile puntandogli contro il fucile. Lo conduce fino nel vagone-dispensa del treno e lì lo uccide. (Si chiamava Syed Saifuddin, aveva 43 anni ed era musulmano). Nel vagone S6, una carrozza con le cuccette, Singh uccide la sua quarta vittima, il terzo passeggero. L’uomo ha una lunga barba rossiccia divisa in due punte ben distinte. (Si chiamava Asghar Ali, aveva 58 anni ed era musulmano). Chetan Singh ha il corpo di Ali ai suoi piedi. Il cadavere, riverso a pancia in giù e in una pozza di sangue, ingombra quasi interamente lo stretto corridoio del vagone. Singh depone il fucile e invita gli altri passeggeri della carrozza a registrare con gli iPhone un suo messaggio. Dice: “Operano dal Pakistan. Questo è quanto i media del nostro paese hanno dimostrato. I loro capi sono lì. Se volete vivere in India, i due per cui dovete votare sono Modi e Yogi”. (“Yogi” è Yogi Adityanath, il monaco estremista hindu a capo del governo dell’Uttar Pradesh).
Chetan Singh è stato arrestato. E’ imputato, secondo la sezione 153A del codice penale indiano, di “promuovere inimicizia tra diversi gruppi su basi religiose”. Pochi giorni fa gli è stata aggiunta l’accusa di “crimine d’odio”. Rahul Gandhi, che nel frattempo è tornato a sedersi nei banchi del Parlamento indiano dopo che la Corte suprema ha annullato la sua condanna, ha commentato l’assassinio plurimo avvenuto sul treno così: “Il Bharatiya Janata Party (Bjp) e i suoi media amici hanno cosparso con il cherosene dell’odio l’intero paese”.
Due. Intanto in Haryana, lo stato indiano a ridosso della capitale New Delhi, la violenza interreligiosa dilaga. Manu Manesar è un giovane uomo che si fa riprendere nei video con una camicia nera e con in mano un fucile mitragliatore di ultima generazione. Manu fa parte dell’esercito dei “cow vigilantes”, i protettori delle vacche. A gennaio ha postato un video che lo ritrae, assieme ad altri “vigilanti”, mentre ferma tre musulmani della provincia di Nuh con l’accusa di fare commercio di bestiame. Uno dei tre musulmani fermati, Waris Khan, viene poi trovato morto. Malgrado l’evidenza del video, la polizia non arresta Manu Manesar e afferma che Khan è morto in un incidente d’auto. Capo del governo dell’Haryana è Manohar Lal Khattar e appartiene al Bjp. Governo e polizia dello stato proteggono apertamente i “vigilanti”.
Per il 31 luglio di quest’anno, le formazioni della destra hindu organizzano una yatra (una marcia) che attraverserà i villaggi della piccola provincia di Nuh, una zona a maggioranza musulmana dell’Haryana. Lo slogan è “Basta con l’uccisione delle vacche”. La sera prima, Manu Manesar mostra un video in cui annuncia di partecipare alla manifestazione. Il giorno 31, i musulmani di Nuh si oppongono alla marcia. Gli scontri tra hindu e musulmani sono violentissimi. Ci sono cinque morti. Il giorno successivo i disordini raggiungono Gurugram dove una moschea viene data alle fiamme e il giovane imam ucciso. Come risposta ai disordini, l’amministrazione dell’Haryana, dal 3 al 7 agosto, ha demolito 1.208 casupole, quasi tutte appartenenti a musulmani, con il pretesto che occupavano il suolo pubblico. Per il 28 agosto prossimo, le organizzazioni estremiste hindu, Bajrang Dal e Vishwa Hindu Parishad (Vhp), hanno annunciato che riproporranno la yatra interrotta dalle violenze interreligiose.
Tre. Nel frattempo non si ferma nello stato del Manipur la violenza etnica tra i Meitei e i Kuki che finora ha provocato 152 morti e 50.000 persone senza più un’abitazione. I Meitei sono la maggioranza della popolazione del Manipur e sono hindu. I Kuki sono invece cristiani. Ma, in questo conflitto, la religione gioca un ruolo secondario. Il conflitto tra Meitei e Kuki va avanti da anni. La scintilla che ha provocato questa nuova esplosione di violenza è partita da una decisione di Biren Singh, il “chief minister” del Manipur, anche lui appartenente al Bjp. Il suo governo ha infatti esteso lo status di “scheduled tribe” (tribù svantaggiata) anche alla popolazione Meitei. I Kuki, da sempre considerati scheduled tribe, si sono visti così ridurre i posti a loro riservati nell’istruzione e nella pubblica amministrazione. Il 3 maggio hanno ripreso la loro lotta contro i Meitei. Questi ultimi accusano i Kuki di essere immigrati irregolari e sostengono che, nel territorio da loro occupato abusivamente, circolano in abbondanza fucili M16 illegali e si trovano grandi piantagioni di papaveri da eroina.
Particolarmente attive nella lotta contro i Kuki sono le donne Meitei che fanno parte dell’organizzazione chiamata “Meira Paibis” (Donne con le torce). In passato avevano portato avanti lotte sociali nonviolente. Quest’anno è diverso. Le donne del Meira Paibis scendono in strada armate di sassi e bastoni e fronteggiano anche le truppe dei Fucilieri dell’Assam accusati di proteggere i Kuki. I Kuki, a loro volta, si sentono discriminati, trattati come cittadini di seconda classe e minacciati da uno stato che li vuole espellere. Il primo ministro indiano Narendra Modi, per due mesi e mezzo non ha aperto bocca sulla crisi in atto nel Manipur fino a quando, tra i social media indiani, non ha iniziato a circolare un drammatico video. Il filmato mostra due donne Kuki, madre e figlia, costrette a denudarsi di fronte a una folla di circa mille uomini Meitei. Le due donne vengono palpeggiate e schiaffeggiate. Interviene allora il figlio della donna, un ragazzo di diciannove anni, che cerca di proteggere madre e sorella. Viene ucciso di fronte agli occhi delle due donne. Il video mostra madre e figlia in lacrime chiedere pietà. La ragazza viene trascinata in un campo e subisce uno stupro di gruppo. Le donne del gruppo Meira Paibis, invece di condannare il tragico episodio, incitano i loro uomini a continuare a stuprare le donne Kuki.
Commentando l’ondata di violenza che si è abbattuta sull’India, il parlamentare del Partito del Congresso Jairam Ramesh ha scritto su “X”, l’ex Twitter: “Il genio dell’odio è uscito dalla bottiglia e servirà un grande sforzo collettivo per cercare di ricacciarlo dentro. Presto, la grande maggioranza degli indiani rifiuterà questa politica dell’odio e della vendetta”. Il riferimento di Jairam Ramesh è alle prossime elezioni politiche indiane. Ma i sondaggi dicono altrimenti. Narendra Modi è ancora il grande favorito.
Martedì 15 agosto, dagli storici bastioni del Forte Rosso di Delhi, Modi ha tenuto il tradizionale discorso per l’anniversario – il 77esimo – dell’indipendenza indiana. Ha attaccato il Partito del Congresso definito familista, corrotto e che scende a patti (con i musulmani) e ha esaltato i risultati raggiunti dal suo governo. Modi ha così, di fatto, aperto la campagna elettorale per le elezioni del 2024. La sua campagna elettorale, e quella del Bjp, non presenterà quest’anno grosse novità. Il primo ministro, come fa in tutte le sedi internazionali, continuerà a glorificare l’India come quinta economia del mondo e che, presto, ne sarà la terza; l’India come culla della democrazia (il riferimento è qui alle repubbliche democratiche della valle orientale del Gange ai tempi del Buddha); l’India che, grazie “ai sogni e alle braccia” di milioni dei suoi giovani, diventerà a breve una potenza mondiale. Contemporaneamente Modi lascerà liberi i gruppi estremisti hindu, Bajrang Dal e Vhp in testa, di polarizzare la popolazione su basi religiose e provocare e perseguitare gli appartenenti alle “religioni non indiane”: islam e cristianesimo.