Chi è il responsabile del regime di Putin? Chiacchiere con oppositori partendo dalle accuse di Navalny
Chi c’era ci racconta gli anni di Eltisn. Alexei Navalny ha ragione a dare la colpa alle riforme delle élite liberali dei Novanta?
Mosca. Il pesante j’accuse di Alexei Navalny nei confronti delle élite liberali degli anni Novanta, colpevoli, a suo dire, di aver spianato la strada a Vladimir Putin con le loro riforme, ha scatenato un aspro dibattito anche in Russia, dove a discuterne sono, però, perlopiù figure di spicco di quegli anni, ora all’opposizione. Lo sfogo, apparso sul sito del dissidente appena qualche giorno dopo la condanna per estremismo a 19 anni di colonia penale in regime speciale, è il suo ultimo atto politico in un contesto nel quale egli non può più contare su persone e strutture operanti sul territorio della Federazione, ma soltanto all’estero. I conti con il passato possono essere letti come un modo per continuare ad accreditarsi fuori dai confini come unico leader dell’opposizione russa. Fatto sta che lo scritto, della cui paternità si continua comunque a dubitare, non ha mancato di alimentare polemiche anche in patria.
Le reazioni sono state principalmente di due tipi: da un lato, quelle di chi ha sempre osteggiato le trasformazioni istituzionali di quel periodo e giudica tardivi i distinguo di Navalny, dall’altro, invece quelle di chi a suo tempo ha sostenuto e difeso le riforme di Boris Eltsin e, pur riconoscendone i limiti, bolla come eccessiva una tale rappresentazione della transizione dal socialismo al mercato. Tra queste ultime voci figurano anche quelle di chi, in passato, ha più o meno apertamente appoggiato Navalny.
A non essergli mai stato ostile quando era in libertà è, per esempio, Alexei Venediktov, 68 anni, giornalista e fondatore nel 1990 dell’“Eco di Mosca”, una delle prime radio libere a ridosso dello scioglimento dell’Urss, le cui attività sono state sospese con l’inizio della guerra. In una conversazione col Foglio, Venediktov usa, però, parole velenose: “La versione di Navalny è caricaturale e ha un obiettivo molto prosaico, pescare nello stesso elettorato di Putin che da tempo dipinge gli anni Novanta come anni terribili (likhie devyanoste)”. Nessun dibattito per storici e intellettuali, insomma, ma puro calcolo per poter, un giorno o l’altro, contendersi l’elettorato del presidente con una narrazione consolidata. Il commento di Venediktov pare, tuttavia, velato da risentimento. Il suo nome compare, infatti, in alcune indagini – riprese nella lettera di qualche settimana fa – con le quali Navalny accusa lui e altri giornalisti russi come Ksenia Sobchak o Kirill Martinov di aver fatto a lungo il doppio gioco. In particolare, Venediktov avrebbe ricevuto ingenti quantità di denaro da Russia unita, il partito di Putin, per organizzare brogli attraverso il voto elettronico tra il 2019 e il 2022. “Non entro nel merito delle sue insinuazioni – replica Venediktov – Navalny è un prigioniero politico, il processo attraverso il quale è stato condannato è ingiusto. Quando sarà stato liberato discuteremo insieme di tutte le sue accuse”.
Analogo scetticismo esprime al Foglio anche Andrei Kolesnikov, senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace e membro della fondazione dedicata al primo ministro di Eltsin, Yegor Gaidar. “E’ uno scritto tipico del suo stile – dice Kolesnikov – zeppo di attacchi e molto emozionale. La ricostruzione dei fatti non è sempre precisa. Per esempio, Navalny accusa Anatoli Chubais di aver portato Putin al potere, ma fu semmai Chubais nel 1999 ad andare da Eltsin per chiedere di non nominare Putin primo ministro al posto di Stepashin”. Le conclusioni di Kolesnikov, alla fine, coincidono con quelle di Venediktov: “Gorbaciov e Eltsin sono sempre stati accusati di aver distrutto il paese e non sono mai stati popolari (lo conferma un sondaggio pubblicato dal quotidiano Kommersant proprio mentre si scrive, ndr), come, del resto, ogni liberalizzatore nella storia russa. In questo senso, Navalny si allinea al pensiero dei putinisti che basano la loro ideologia sugli orrori degli anni Novanta”.
Eppure a pensarla così non sono soltanto i sostenitori di Putin. Grigori Yavlinsky, tre volte candidato alla presidenza della Federazione, è il leader informale di Yabloko, il più vecchio partito post sovietico e di orientamento social liberale: “Tutto quello che dice Navalny sta scritto qui – spiega al Foglio, mostrando sornione una copia di Prichini – Rossiya 2022, il pamphlet sulle cause dell’invasione – noi lo ripetiamo da trent’anni che le radici del fallimento attuale stanno in quel momento in cui la Russia, come la Germania del primo dopoguerra, ha vissuto la ‘sindrome di Versailles’. Che Navalny lo dica adesso, beh insomma, meglio tardi che mai…”. Sull’oppositore ora in carcere Yavlinsky ha idee chiare: “Guardi, io posso solo dire che mi dispiace per la sua ingiusta detenzione. Navalny è stato un dirigente del nostro partito per tre anni. Lo conosciamo bene”. A fargli eco è Boris Vishnevsky, politologo e deputato di Yabloko nell’assemblea di San Pietroburgo, che su Novaya Gazeta ha scritto che “al contrario di quanto sostiene Navalny, le origini del sistema attuale sono più profonde del banale desiderio dei riformatori liberali di arricchirsi” e stanno in un sistema criminale che ha combinato dominio e proprietà senza garantire la separazione dei poteri, il pluralismo dei media, un sistema giudiziario indipendente ed elezioni libere e trasparenti.
Alla fine, parafrasando Leonid Volkov, capo dello staff del dissidente, anche quando si è d’accordo con Navalny, in Russia “non va di moda sostenerlo, ma criticarlo”.