Bernie Sanders (foto Ansa)

in america

Cosa ne è stato della Squad, Ocasio-Cortez, i Bernie boy?

Giulio Silvano

A Washington scompaiono i socialisti da social e la politica dem la fanno i realisti. La politica alla Casa Bianca si fa lontana da Instagram ma stringendosi attorno a Joe Biden

Socialismo. Termine che negli Stati Uniti fino a pochi anni fa non si poteva nemmeno pronunciare se ci si aspettava di avere una carica pubblica. Una parolaccia. Un sintomo inequivocabile di vicinanza ai valori dell’Urss. Maccartismo, red scare, liste di proscrizione. Poi un senatore indipendente, un newyorkese ebreo che aveva creato il suo feudo nel progressista Vermont, è riuscito a liberare la S-word dalla mentalità da guerra fredda. Bernie Sanders è riuscito a dirsi socialista, a dire che era arrivato il momento di farla pagare ai padroni, ai megamiliardari, e che c’era lo spazio per un discorso sulla lotta di classe a Washington. Ha sfidato Hillary Clinton nelle primarie del 2016 vincendo molti stati, cosa inaspettata per la vecchia guardia dem. Stati importanti come il New Hampshire e il Michigan. Poteva essere il presidente degli hipster ecologisti, di chi, come Susan Sarandon, diceva che tanto Hillary e Trump in fondo erano uguali. Meglio votare Sanders, ma se Sanders non arrivava alla sfida finale, meglio non votare. Secondo i numeri un suo elettore su dieci ha finito per votare Trump. Meglio un voto destabilizzante che un voto all’establishment. Al turno successivo, nel 2020, ci ha riprovato. Anche lì ha iniziato benissimo, vincendo New Hampshire, Nevada e California. Tutti gli altri candidati hanno finito per appoggiare Biden e contrastarlo. 

Il più grande risultato ottenuto da Sanders è stato quello di sdoganare il termine socialismo. Certo, non si parla di quello sovietico, quello reale o quello craxiano. Si parla di un socialismo scandinavo, che è più socialdemocrazia. Ma tant’è, ha lanciato un’onda che, parallela a quella del Tea Party, in seguito alla crisi dei subprime, ha portato molti a potersi dire socialisti. Prima della prima campagna di Sanders gli iscritti ai Democratic Socialists of America (Dsa) erano 6mila, dopo sono diventati 80mila. Ha aiutato la nascita di Occupy Wall Street, quelli che urlavano a Zuccotti Park: “siamo il 99 per cento”. Sanders ha permesso ad alcuni di questi giovani guerriglieri di arrivare nel 2019 a Capitol Hill. The Squad è stato il primo gruppo di questi combattivi millennial e Gen X, che alternavano su Instagram video del proprio cane con chiamate alle armi contro Amazon. Capitanata da Alexandria Ocasio-Cortez, la pasionaria dei social nata nel 1989, eletta alla camera giovanissima, la Squad aveva dentro solo minoranze etniche. Ilhan Omar, Ayanna Pressley, Rashida Tlaib. Poi nel ‘21 si sono uniti Jamaal Bowman e Cori Bush. Nel ‘23 Greg Casar e Summer Lee. Tutti deputati non-bianchi, spesso con un passato da attivisti o da volontari nelle campagne di Sanders. Il trentaquattrenne Casar è stato appoggiato dal Working Families Party ed è un membro dei Dsa. La sua carriera è iniziata lottando perché gli operai edili di Austin avessero più pause. Con le midterm del ‘22 è arrivato il primo deputato Gen Z, Maxwell Frost, attivista antiarmi ventiseienne (che però non si è unito ufficialmente alla Squad). 

Quando questi giovani rossi sono riusciti a battere alle primarie i dem più centristi e navigati, e poi i repubblicani, si è parlato di una piccola rivoluzione, dell’inizio di qualcosa di esplosivo. E invece, puff. Niente esplosioni, niente quarantotto. Quello che sembrava l’inizio di qualcosa è sembrato invece solo l’apice di un innamoramento per il socialismo dato dalla crisi finanziaria.  E’ vero che nel mondo dem c’è stata una storica tendenza ad andare a sinistra, almeno sui diritti. Lo stesso Biden che si diceva contrario ai matrimoni gay fino al 2012 ora organizza feste per il Pride alla Casa Bianca con le drag queen. Ed è innegabile che i partecipati comizi di Sanders abbiano aiutato a inserire anche nell’agenda governativa temi più progressive. Ma è, appunto, una tendenza generale che si vede spesso nei partiti di centro e di dentro sinistra. Come la lotta al cambiamento climatico che fino a qualche anno fa sembrava prerogativa degli ex hippy. Tutti i discorsi contro Big Pharma, contro l’industria dei combustibili fossili, contro le spese militari fatti da Sanders, sono rimasti fondamentalmente dei discorsi, tranne quando li hanno presi in mano i centristi. Università gratis, sistema sanitario sul modello europeo, e altri cavalli di battaglia dei Bernie boys, avevano già dei promotori tra gli obamiani. Gran parte delle proposte di Sanders hanno sempre avuto un tono utopico, elettorale-populistico, per via della loro vaghezza e della loro percepita radicalità. I veri protagonisti dell’ultima stagione politica non sono stati loro, i lettori di David Graeber e Mark Fisher, ma i moderati in grado di dialogare con i repubblicani e con le aziende. I player di Washington in questi anni di governo Biden non sono stati Ocasio-Cortez o Ilhan Omar, ma il veterano senatore di New York Chuck Schumer, il moderatissimo senatore del West Virginia Joe Manchin, l’ex speaker Nancy Pelosi. Persone che senza appoggiarsi alla retorica, e senza profili Instagram, hanno fatto il gioco politico mediando tra le diverse anime dei partiti e del Congresso. 

Mentre a destra la controparte populista del Freedom Caucus ha avuto un ruolo importante dentro il GoP, l’ala sinistra dem sembra scomparsa, anche dentro il suo partito. Sono stati i lawmaker moderatissimi come Manchin e la senatrice Kyrsten Sinema a far modificare a Biden i grandi progetti di investimento. Il Green New Deal, progetto ambizioso spinto inizialmente dai sandersiani, è stato col tempo modificato diventando l’Inflation Reduction Act, passato nel ‘22. Incentivi per l’energia pulita, riduzione dei costi delle medicine, misure contro l’inflazione, 369 miliardi di dollari per la riduzione delle emissioni di gas serra. Per Ocasio-Cortez non è stato sufficiente. Ma la deputata newyorkese non sembra accorgersi che non sarebbe stato possibile metterlo in pratica, per via degli equilibri in Congresso e dei lobbysti, nella sua forma originaria. Più che moderati vs radicali, il conflitto silente tra i dem, sembra più uno scontro realisti vs utopisti. 

Sul fronte presidenziale tutti, anche i socialisti, sono compatti intorno al vecchio Joe. Sanders ha attaccato i guanti al muro. Ocasio-Cortez a dicembre è stata attaccata da alcuni suoi elettori per aver appoggiato l’invio di aiuti a Kyiv. “Hai votato per mandare soldi ai nazisti ucraini”, gli urla un ragazzo dalla platea. “Sei una codarda”. Sanders, che condanna fermamente Putin, a ottobre è riuscito a far ritirare una lettera scritta dagli iper progressisti del Congresso che chiedeva di far negoziare una pace concedendo alla Russia diversi territori ucraini. Una delle promotrici, l’ex deputata Tulsi Gabbard, ha lasciato il partito democratico dicendo che aiutare gli ucraini significa “spingere attivamente il mondo sull’orlo di un olocausto nucleare”. Anche sugli aiuti a Israele Ocasio-Cortez era stata in passato criticata ma aveva seguito la linea del partito. Ci si chiede quindi oggi quale sia la differenza, a Capitol Hill, tra un democratic socialist e un semplice democratico? Nessuna. Almeno da un punto di vista di policymaking. Va bene essere socialisti sui social, nei comizi, o al Met Gala con un vestito con scritto “Tax the rich”, ma a Washington è un’altra storia.