memoria storica
L'ascesa di Prigohzin racconta cosa la Russia non è voluta diventare
Il capo della Wagner vittimizzato è entrato nell’immaginario popolare. Ritratto di un macellaio incredibilmente rimpianto anche degli oppositori che lo avevano denunciato
L’ultima cosa che probabilmente si sarebbe potuta immaginare, che da morto – almeno sul piano politico, in attesa di conferme degli accertamenti del Dna – Evgeni Prigozhin sarebbe stato inserito nella lista delle vittime del putinismo, insieme a giornalisti sparati e dissidenti avvelenati. La parabola politica e mediatica del capo della Wagner è stata così inusuale, scenografica e scandalosa, da averlo trasformato quasi in un eroe paradossale.
Gli altarini spontanei alla sua memoria che stanno sorgendo a Pietroburgo, a Rostov sul Don, a Ekaterinburg e in altre città russe, dimostrano come sia riuscito a diventare un personaggio dell’immaginario popolare, e non soltanto una delle tante ombre alla corte di Vladimir Putin. E’ incredibile come un uomo diventato famoso grazie alla produzione di fake news e bande di mercenari in Africa, venga ora rimpianto perfino da molti di quegli oppositori liberali russi che l’avevano denunciato per le sue truffe con gli approvvigionamenti alimentari dell’esercito e delle scuole, e per i ricatti e le minacce ai dissidenti.
L’èra del “cuoco di Putin” nella politica russa è iniziata molto prima della marcia su Mosca di due mesi fa, e prima di accostarlo ad Alexei Navalny bisogna ricordarsi che è stato proprio Prigozhin a rivoluzionare il dibattito politico russo con discorsi di violenza estrema. E’ l’uomo che ha girato filmati di fucilazioni e decapitazioni dei nemici (in Siria ancora prima che in Ucraina), e che ha reso (quasi) normale ammazzare un “traditore” a martellate in testa, pubblicare il filmato e minacciare di mandare una copia del martello (dipinto anche di vernice rossa per un effetto pulp) al Parlamento europeo. L’ascesa di Prigozhin ha significato esattamente questo, il rifiuto da parte della Russia perfino delle apparenze di una appartenenza all’Europa, per diventare una sorta di dittatura di quelle che si vedevano negli anni 70 in Africa e Sudamerica, con i militari indistinguibili dai signori della guerra e i politici come capibanda. La morte del capo della Wagner va inserita semmai in quella lista piuttosto lunga di comandanti della guerriglia filorussa di Donetsk e dintorni, con trascorsi chi nel racket, chi nei corpi speciali, chi in entrambi, eliminati da bombe e pallottole immancabilmente attribuite agli infiltrati ucraini, ma più probabilmente spesso fatti fuori dai concorrenti, o dai loro padroni moscoviti dopo essersi “allargati troppo”. Il problema è che la morte clamorosa di Prigozhin non è un passo verso il ripristino della legge e dello stato: è una esecuzione punitiva in stile mafioso, volutamente plateale, e lascia la Russia in mano a una guerra di cosche esattamente come il tentato golpe dei Wagner due mesi prima, lanciato più per spodestare i generali del ministro Shoigu che per cambiare veramente il potere. A giudicare dalle circostanze della sua fine, Prigozhin era un ottimo organizzatore, ma un pessimo politico: tutta la sua esperienza precedente, dalla galera all’esercito di mercenari, gli aveva insegnato a fare affidamento essenzialmente sulla violenza armata e sulla prepotenza. Ma non è stato lui a rendere queste regole fondanti in tutta la Russia quanto lo erano nella Pietroburgo degli anni 90, spartita tra bande concorrenti, in mezzo alle quali navigavano un vicesindaco dai trascorsi nel Kgb, e un ristoratore esordiente ma ambizioso. Togliendo di mezzo Prigozhin, Putin ha voluto riaffermare il suo diritto incontestabile di padrino. E, paradossalmente, eliminare la possibilità di una exit strategy per se stesso: i boss dei boss non muoiono nel proprio letto.