politica estera
Prima il business, poi la Difesa. La strategia italiana dell'Indo-Pacifico si sposta un po'
La priorità del Mediterraneo allargato e la delicatezza del nodo Via della seta con la Cina rendono il governo Meloni sempre più cauto sulla sua strategia asiatica
In molti a Roma non vogliono l'ingresso dell'Arabia saudita nel Global combat air programme: non per ragioni strategiche, ma per le quote minori. La missione del Morosini in Asia? Business. E il Cavour che giro farà?
Circola un certo scetticismo dentro al ministero della Difesa italiano e tra le aziende interessate al potenziale ingresso dell’Arabia saudita nel Global combat air programme, l’accordo di collaborazione internazionale tra Italia, Regno Unito e Giappone per la progettazione, entro il 2035, di un aereo da caccia di nuova generazione. Era stato il Financial Times, all’inizio di agosto, a parlare del tentativo con cui il governo inglese di Rishi Sunak stava cercando di coinvolgere Riad nell’alleanza, fatta anche di segreti militari e strategici. Secondo il quotidiano, le resistenze maggiori arrivavano da Tokyo. Ma anche a Roma, per la verità, non tutti sono d’accordo. Una fonte informata sulle negoziazioni, che preferisce restare anonima perché non autorizzata a parlare con la stampa dell’argomento, spiega al Foglio la questione con la consuetudine dell’attuale ministro della Difesa, Guido Crosetto, di trasformare le questioni strategiche a lungo termine in questioni per lo più di business: “E’ vero che l’Arabia Saudita ci metterebbe i soldi, ma dividere per quattro non è come dividere per tre”. Più di qualcuno, nei ministeri a Roma e Tokyo, avrebbe risposto alle controparti inglesi: “Se Riad vuole i nostri fighter jet può comprarli nel 2035”.
C’è del vero, in questa postura di Crosetto e in generale nell’indirizzo del ministero della Difesa italiano. Molte delle attività strategiche che hanno a che fare con l’Indo-Pacifico (e quindi con la Repubblica popolare cinese) in cui è stata coinvolta l’Italia, sostenute e benedette da Washington, sono state annunciate e diffuse dall’esecutivo come una specie di promozione del made in Italy.
E’ il caso del Global combat air programme: Rishi Sunak e il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, cioè i due più forti alleati dell’America in Europa e in Asia orientale, hanno lavorato molto alla comunicazione dell’accordo, firmato alla fine dello scorso anno, perché risultasse un pezzo di quella coalizione occidentale democratica contro gli autoritarismi aggressivi. Un accordo politico, insomma. Il ministro della Difesa Crosetto, invece, anche all’ultimo trilaterale a Roma a fine giugno ha sottolineato soprattutto i potenziali interessi industriali dell’accordo.
Anche la campagna nell’Indo-Pacifico della nave della Marina militare Francesco Morosini, che ieri è arrivata in Kuwait dopo mesi di navigazione in cui ha toccato 14 porti asiatici, più che una campagna per la “libertà di navigazione” nelle aree dell’Indo-Pacifico che subiscono l’assertività cinese è stata un’operazione di “promozione dell’eccellenza industriale della Difesa”. Un dettaglio che non è sfuggito agli osservatori internazionali, che aspettano adesso l’ufficializzazione della campagna della portaerei Cavour, che dovrebbe partire per la prima volta per l’Indo-Pacifico per esercitazioni militari congiunte con i partner asiatici, anche se non esistono ancora dettagli sulla rotta (passerà per lo Stretto di Taiwan come la Francia? è la domanda ricorrente). Se l’Italia sembra sempre più attiva nell’area in cui la Cina mostra i muscoli – l’8 agosto scorso gli aerei dell’Aeronautica militare e quelli delle Forze di autodifesa giapponesi hanno compiuto la loro prima esercitazione militare congiunta – il governo italiano preferisce comunicare questo attivismo come un modo per “promuovere l’Italia” e non come uno show di forza. “E’ nella natura e nel percorso professionale di Crosetto”, dice al Foglio la fonte. Ma non solo. Ci sono due questioni di politica estera cruciali per il governo Meloni che rendono difficile una posizione politica forte e chiara sulle questioni che riguardano l’Asia e quindi anche la Cina.
Da un lato c’è la necessità di dare un forte indirizzo al G7 del prossimo anno, quello in cui l’Italia ha la presidenza di turno: mentre in America e in gran parte d’Europa si rinnova di continuo la centralità della minaccia cinese, Meloni vuole far tornare le grandi economie a occuparsi di Mediterraneo. Una sfida non semplicissima. E poi c’è il nostro rapporto con la Repubblica popolare cinese: la prossima settimana il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, sarà a Pechino. Sarà nelle sue mani parte delle negoziazioni con la Cina per l’allontanamento senza danni dell’Italia dalla Via della Seta – il progetto strategico cinese da cui Roma deve comunicare l’uscita entro il 24 dicembre prossimo.