Il prologo siriano

Dieci anni fa Putin dava la sua “garanzia” diplomatica in Siria. Sei mesi dopo annetteva la Crimea

Paola Peduzzi

Nel giro di una ventina di giorni è stato commesso un crimine di guerra rimasto impunito perché alla credibilità dell’occidente è stata sostituita la macchina della diplomazia russa

Poco dopo le due della mattina del 21 agosto di dieci anni fa, a Ghouta, nella periferia a sud di Damasco, piombarono missili dal cielo che, secondo le prime testimonianze, sembravano diversi dai tanti missili che erano già stati lanciati dal regime siriano di Bashar el Assad contro il suo stesso popolo: questa volta “sono più pieni”, aveva detto un testimone, riportando anche il rumore che li aveva accompagnati, un sibilo, come quando si apre una lattina. Fino a quel momento, i gruppi di opposizione ad Assad avevano registrato trentuno attacchi chimici, la maggior parte proprio in quell’anno: la repressione assadista era iniziata nel 2011, ma nel 2013 era diventata più crudele, con i chiodi e le sostanze chimiche nelle bombe. Poche ore dopo l’attacco a Ghouta, mentre già circolavano le immagini di adulti e bambini morti soffocati con una sostanza bianca che usciva dalla bocca, il numero dei morti variava di molto, da 250 a 1.300.

 

Dieci giorni dopo, il governo degli Stati Uniti allora guidato da Barack Obama pubblicò quattro pagine con l’esito della propria inchiesta sull’attacco in cui fissava a 1.429 i morti, oltre le stime dell’opposizione siriana, e in cui diceva che la sostanza utilizzata era il gas sarin. I missili erano effettivamente più pieni, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte di Assad varcava quella che Obama, l’anno precedente, aveva definito accidentalmente “la linea rossa” – accidentalmente perché nei testi preparati prima dell’incontro con i giornalisti dai collaboratori del presidente non c’era alcun accenno a linee rosse; accidentalmente perché Obama pronunciò quell’espressione rispondendo a una domanda (disse: “Non possiamo ritrovarci in una situazione in cui armi chimiche o biologiche finiscano nelle mani delle persone sbagliate. Siamo stati molto chiari con il regime di Assad, ma anche con gli altri interlocutori, sulla base del fatto che una linea rossa per noi è: iniziamo a vedere un sacco di armi in movimento o in uso. Questo cambierebbe i miei calcoli, cambierebbe la mia equazione”); accidentalmente perché il team della comunicazione della Casa Bianca cercò in tutti i modi di non far riprendere quella risposta dai media, perché nessuno aveva davvero deciso che se la Siria avesse varcato la linea rossa, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente contro il regime di Assad. 

 

Ma quella linea pur fissata in modo non strategico era in ogni caso varcata e l’Amministrazione Obama iniziò a mobilitarsi per costruire un’alleanza di paesi pronta a intervenire in Siria contro “un’oscenità morale inescusabile e inaccettabile”, come l’allora segretario di stato John Kerry definì l’attacco di Ghouta. Assad negava ogni responsabilità e i suoi sostenitori, leader di paesi alleati e opinione pubblica, lo difendevano: che bisogno ha di usare le armi chimiche visto che sta comunque mantenendo il controllo del paese? In quegli stessi giorni, erano presenti in Siria gli ispettori dell’Onu che dovevano verificare lo stato dell’arsenale chimico del regime e che naturalmente erano stati portati a visitare siti per lo più innocui, ma gli assadisti insistevano: può Assad essere così stupido  da organizzare un attacco chimico proprio con gli ispettori in casa?

 

Così, di bugia in bugia, la colpa dell’attacco, secondo la propaganda e i suoi megafoni, ricadde sui ribelli (che come noto non avevano a disposizione aerei ed elicotteri: solo il regime ha un’aviazione)  mentre rimbombava il solito corollario anti occidentale:  “le potenze imperialiste” erano a caccia di pretesti per poter sfogare la loro smania militarista contro un paese che in realtà stava combattendo contro il terrorismo. Il ricordo dell’invasione dell’Iraq era ancora fresco e lo era anche per l’Amministrazione Obama che voleva rammendare il buco di quella guerra “sbagliata” e che infatti si premurò di fare le dovute distinzioni, disse che non avrebbe commesso “gli stessi errori”, ma rimase risoluta nell’assecondare l’imperativo morale di reagire alla strage di Ghouta anche senza passare dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove la Russia di Vladimir Putin opponeva il suo veto a ogni genere di intervento.  Il presidente russo difendeva Assad, suo alleato-vassallo, ma ancor più difendeva la “via diplomatica” di risoluzione della crisi, denunciando l’attivismo militarista degli  occidentali e assecondando la propaganda secondo cui l’attacco di Ghouta non era stato commesso dal regime siriano, ma da quei terroristi che l’occidente combatteva assieme alla Russia. Putin in sostanza diceva che gli occidentali volevano usare a ogni costo le armi, mentre lui si proponeva come l’interlocutore necessario per riportare la calma attraverso la diplomazia. 

 

La determinazione di Obama durò qualche giorno, poi la cautela e il calcolo ebbero il sopravvento e il presidente americano disse che avrebbe chiesto l’assenso del Congresso per l’operazione militare. Questo inevitabilmente avrebbe rallentato i tempi (la data del dibattito parlamentare e del voto fu fissata per il 9 settembre) ma si trasformò presto in un ridimensionamento generale dell’operazione, complice anche il fatto che l’alleato britannico – al governo a Londra allora c’era David Cameron – non aveva ottenuto il consenso parlamentare per andare in Siria. La grande operazione contro “l’oscenità morale” in pochi giorni divenne un’azione chirurgica, “incredibilmente piccina”, disse Kerry, un atto dimostrativo per difendere quella famigerata linea rossa che Obama non avrebbe nemmeno voluto tracciare. Gli interventisti dentro l’Amministrazione continuavano a esserci, ripetevano una frase che poi avremmo risentito spesso: il costo dell’inazione si rivelerà più alto del costo dell’azione. Lo slancio era perduto, la convinzione pure, ma restava l’idea di un’operazione militare – si parlava di un blitz di 48 ore contro obiettivi già identificati dal Pentagono – ridimensionata e ritardata ma comunque destinata a dimostrare ad Assad che la sua guerra non convenzionale contro il popolo siriano non era né accettabile né conveniente.

 

Poi accadde l’imprevisto, un’altra battuta fuori programma – questa volta di John Kerry – che si sarebbe trasformata, proprio come era accaduto con la linea rossa, in una decisione strategica che avrebbe cambiato tutto non soltanto per la credibilità dell’America e dell’occidente ma anche per l’idea che Putin si sarebbe formato su questa stessa credibilità. In una conferenza stampa a Londra a settembre, Kerry rispose a una domanda di un giornalista che gli chiedeva se fosse ancora possibile per Assad evitare la guerra: “Certo – disse il segretario di stato – Se consegnasse ogni singolo pezzetto delle sue armi chimiche alla comunità internazionale entro la settimana prossima. Se le consegnasse senza ritardo e anche consentendo il completo controllo sull’inventario. Ma non sta per farlo e non può essere fatto”, aveva concluso Kerry. Poco dopo il dipartimento di stato, vedendo che la questione dello smantellamento dell’arsenale chimico siriano stava diventando una proposta diplomatica considerata reale, pubblicò un chiarimento: il segretario “non stava facendo un’offerta seria”. Era già tardi: la macchina diplomatica russa, che Putin aveva già ben riscaldato, era in moto e Mosca aveva già chiesto a Damasco non soltanto di consegnare tutto l’arsenale chimico come richiesto da Washington ma anche di aderire all’Organizzazione internazionale per la messa al bando delle armi chimiche. Damasco aveva risposto positivamente, confidando nella “saggezza della leadership russa”, disse il ministro degli Esteri siriano, per “tentare di evitare l’aggressione contro il nostro popolo”. Assad avrebbe poi detto di aver acconsentito alla consegna perché c’era la garanzia russa, “gli Stati Uniti non hanno contato in questa decisione”.

 

Poco dopo, il 12 settembre del 2013, quando Obama aveva esaurito un tour mediatico con molte interviste in cui “l’offerta non seria” era diventata “un pertugio” da esplorare con attenzione, Putin pubblicò un suo intervento sul New York Times in cui si rivolgeva al Congresso americano (non al presidente) e in cui diceva: l’America non deve agire al di fuori del Consiglio di sicurezza; sono stati i ribelli siriani ad aver usato le armi chimiche per provocare la reazione internazionale contro il regime (Putin aggiungeva che le avrebbero usate ancora, questa volta contro Israele); l’eccezionalismo americano non esiste, l’America è una nazione come le altre perché “tutti gli uomini sono creati uguali”. 

 

Da quel momento in poi, Putin che era intervenuto all’ultimo minuto fermando le operazioni militari americane, che aveva dimostrato, lui sì, di saper proteggere i propri alleati, che aveva opposto la diplomazia (e la legge internazionale e l’Onu) alla voglia di guerra americana, sarebbe diventato un interlocutore necessario in Siria e altrove. Nel giro di una ventina di giorni, dieci anni fa, è stato commesso un crimine di guerra rimasto impunito perché alla credibilità dell’occidente è stata sostituita “la garanzia” diplomatica della Russia. Sei mesi dopo, Putin annetteva la Crimea.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi