Dal Washington Post
Il Sudan sta collassando tra crimini orribili, fame e disinteresse
Il golpe nel golpe è diventato una guerra civile violenta: non si vede una via d’uscita. Le azioni diplomatiche
Non si intravede una fine per la terribile guerra civile in Sudan. Dalla metà di aprile, le truppe sudanesi fedeli al militare più alto in grado del paese, il generale Abdel Fattah al Burhan, si sono scontrate con le Forze di supporto rapido (Rsf), una potente fazione paramilitare che un tempo operava in stretto coordinamento con l’esercito. Le loro battaglie sono uno scontro vecchio stile tra signori della guerra rivali, che si contendono il territorio e il potere. E hanno devastato una nazione di 46 milioni di persone, causando migliaia di morti, circa un decimo della popolazione di sfollati e milioni di persone senza cibo né cure mediche.
Martedì Burhan è andato in Egitto, dove ha incontrato il presidente Abdel Fattah al Sisi. Una vaga dichiarazione del governo egiziano, che è stretto alleato di Burhan, ha manifestato preoccupazione per “la sovranità e l’integrità dello stato sudanese”. Il viaggio del generale sudanese è stato il primo al di fuori del paese dallo scoppio della guerra e si prevede che prossimamente faccia tappa a Riad, la capitale saudita. Le forze di Burhan e le Rsf hanno concordato e violato almeno nove cessate il fuoco, e una tregua duratura non sembra essere in programma, almeno per ora. Domenica scorsa il leader delle Rsf, Mohamed Hamdan Dagalo, un ex alleato di Burhan soprannominato Hemedti, ha presentato un programma di pace in dieci punti che porrebbe fine alle ostilità e vedrebbe i suoi miliziani integrati in un’unica entità. La proposta si è scontrata però con la triste realtà sul campo e con la profonda inimicizia tra le fazioni in guerra. Burhan ha rifiutato la proposta quasi subito. “Chiediamo al mondo di avere una visione obiettiva e corretta di questa guerra”, ha detto in Egitto. “Questa guerra è stata iniziata da un gruppo che voleva prendere il potere e che, nel tentativo, ha commesso qualsiasi crimine possa venirvi in mente”. Il giorno precedente, Burhan aveva detto a un raduno di soldati sudanesi che “non c’è più tempo per discutere” e aveva bollato le Rsf come “mercenari” colpevoli di “tradimento”. I gruppi per i diritti umani affermano che entrambe le parti, così come le milizie affiliate, sono colpevoli di aver commesso orribili crimini di guerra e saccheggi a volontà.
Le Rsf fanno risalire le loro origini all’organizzazione paramilitare Janjaweed, accusata di atrocità genocide due decenni fa nelle campagne contro l’etnia non araba nella regione occidentale del Darfur in Sudan. Da aprile, la fazione e i suoi alleati sembrano aver ripreso le violenze nei principali campi di battaglia del conflitto, dal Darfur alla capitale Khartoum e dintorni. Le Rsf sono accusate di aver compiuto molteplici massacri di civili e di utilizzare sistematicamente lo stupro come arma di guerra. Gli attivisti hanno già verificato decine di episodi di aggressioni sessuali e stupri di gruppo e temono che il numero reale di tali attacchi sia molto più alto di quanto documentato finora. “E’ brutale, si tratta di umiliazione e di degradazione della dignità umana”, ha detto al Guardian Sulima Ishaq, a capo dell’Unità nazionale per la lotta alla violenza contro le donne e i bambini. “Fa parte della loro strategia. Per costringere a evacuare le case, minacciano di violentare le donne”.
Anche l’esercito sudanese è coinvolto in una miriade di atrocità, tra cui bombardamenti indiscriminati e attacchi ai centri abitati. Negli ultimi giorni, gli scontri tra l’esercito e le Rsf nella città di Nyala, nel Darfur meridionale, hanno coinvolto molti civili nel fuoco incrociato, con almeno 39 persone uccise in un solo giorno la scorsa settimana. La ferocia e la portata della violenza hanno attirato paragoni con la Somalia, che è collassata tra aspre lotte intestine negli anni Novanta. “I leader di entrambe le parti vedono questa situazione come una lotta per la loro sopravvivenza… Questo ha reso il lavoro della diplomazia molto più difficile”, ha dichiarato al Washington Post all’inizio dell’estate Murithi Mutiga, responsabile per l’Africa dell’International crisis group. “Il rischio di collasso dello stato è particolarmente alto e c’è anche il rischio di infiltrazioni jihadiste – un altro parallelo con la Somalia”.
Nel frattempo, le condizioni sul campo peggiorano. Circa venti milioni di sudanesi devono affrontare una grave insicurezza alimentare. Circa 14 milioni di bambini non hanno accesso ai servizi di base, tra cui l’istruzione e le cure mediche come le vaccinazioni. L’80 per cento delle strutture sanitarie del Sudan è fuori servizio, a causa della mancanza di forniture, di elettricità o di entrambe. Gli ospedali sono stati presi di mira dalle parti in conflitto. L’imminente arrivo della stagione delle piogge preoccupa gli esperti sulla capacità del paese di far fronte a inondazioni diffuse e alla diffusione di malattie. “Sarà un disastro totale”, mi ha detto Yasir Elamin, presidente dell’Associazione dei medici sudanesi americani, che svolge attività di assistenza medica e di soccorso in Sudan. “I bambini moriranno di malaria e di malattie diarroiche”.
La comunità internazionale ha faticato per arrivare a una tregua duratura tra Burhan e Hemedti. Le due parti contano diverse potenze regionali come taciti sostenitori – con gli Emirati Arabi Uniti più vistosamente legati alle Rsf – e il groviglio geopolitico ha ulteriormente intrappolato un paese da tempo tormentato da divisioni etniche, insurrezioni e dal pesante governo dell’esercito. Dopo l’estromissione del dittatore di lungo corso Omar al Bashir nel 2019, Burhan e Hemedti hanno lavorato insieme per mandare all’aria una transizione democratica guidata dai civili, attuando un colpo di stato de facto nel 2021. La loro mossa all’epoca fu ampiamente tollerata dalle potenze esterne, compresi gli Stati Uniti, che si sono concentrati maggiormente sulla prospettiva che la leadership di Khartoum – a prescindere dalla loro buona fede antidemocratica – trovasse una specie di accordo politico con Israele nell’ambito degli Accordi di Abramo. “Credo che questo abbia giocato un ruolo negativo”, ha detto Elamin. “Perché Burhan e Hemedti vedevano entrambi Israele nello stesso modo in cui vedevano gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto: è solo un altro paese che ci aiuterà a ottenere il sostegno degli Stati Uniti”.
Ora, parlare della politica estera del Sudan è irrilevante: il paese sta collassando su sé stesso. Elamin, un oncologo texano che ha mobilitato la sua organizzazione come parte di una più ampia fioritura della società civile sudanese nella diaspora e in patria, ha detto che il governo di breve durata sostenuto dai civili non è riuscito a essere davvero inclusivo, ha lottato contro le forti pressioni economiche e ha lasciato aperta la porta agli uomini dell’esercito. “Pensavamo che avremmo avuto un destino diverso rispetto all’Egitto, alla Siria e alla Libia”, mi ha detto Elamin, riferendosi alle speranze di Khartoum dopo la caduta di Bashir e ai modi in cui altre rivolte pro democrazia negli stati arabi sono fallite. “Ci sentivamo padroni del mondo. Eravamo così sciocchi. Eravamo così ingenui”.
Ishaan Tharoor, Copyright Washington Post
Dalle piazze ai palazzi