Le stelle di Modi
L'India ha conquistato la Luna, ma prima ancora ha invaso il mercato globale con manager prestigiosi
Innovazione e formazione trainano un paese che compete con la Cina. E che ci chiede di scegliere da che parte stare
Ajay Banga non è un personaggio del quale parla lo show business. Eppure viene considerato uno dei manager più capaci e importanti al mondo. Nel maggio scorso è stato nominato alla guida della Banca mondiale, indicato dal presidente americano Joe Biden. Il predecessore, David Malpass, nominato da Donald Trump, era entrato in contrasto con l’attuale Amministrazione e si è dimesso prima del tempo. Dalla sua nascita nel 1945, la poltrona della World Bank spetta agli statunitensi, la guida del Fondo monetario a qualcun altro. Ma Banga è un indiano con tanto di barba e turbante sikh. Formalmente la regola non è stata violata, perché possiede anche il passaporto americano, tuttavia è un’altra rottura, l’ultima di una serie che ha visto salire al vertice delle multinazionali e delle istituzioni globali gli esponenti della nuova India. Lo stesso Biden ha definito Banga “un leader innovativo”, forte di una “clamorosa approvazione” da parte del board dei governatori della Banca. Il presidente americano si dice ansioso di lavorare con lui per trasformare la Banca mondiale, che “rimane una delle istituzioni più importanti dell’umanità per ridurre la povertà”. Eppure Banga non assomiglia a Muhammad Yunus, il banchiere dei poveri. Per assumere la sua posizione a Washington ha lasciato la presidenza della Exor, la finanziaria degli Agnelli gestita da John Elkann. Nato 63 anni fa a Pune, grande città del Maharashtra, lo stato la cui capitale è Mumbai, la sua famiglia sikh è originaria del Punjab e il padre è un ufficiale dell’esercito distaccato un po’ qua un po’ là. Ajay così frequenta le scuole in mezza India prima di laurearsi a Delhi e tuffarsi in un lungo percorso nelle maggiori multinazionali. Comincia con Nestlé, poi alla Pepsi Cola cura il lancio dei fast food quando l’economia abbandona il socialismo indiano per aprirsi al mercato. Da allora è tutta un’ascesa anche nelle banche come la Citigroup, per la quale cura l’espansione nella microfinanza che in India ha una funzione davvero strategica, per salire poi al vertice di Mastercard. Nel 2007 diventa cittadino americano e si afferma come il più noto esponente del capitalismo in salsa curry.
Un piccolo elenco ci spalanca un mondo. L’amministratore delegato di Alphabet-Google si chiama Sundar Pichai, nato 51 anni fa a Madurai in India, anch’egli come Banga con passaporto a stelle e strisce. Suo padre era un ingegnere alla General Electric, Sundar si è laureato in India, ha preso un master a Stanford e un altro in Pennsylvania. La guida di Microsoft è nelle mani di Satya Nadella, nato nello stato nell’Andhra Pradesh laureato in India specializzato negli States, anche lui. Dallo stesso distretto proviene Arvind Krishna, ad della Ibm. A Hyderabad è nato nel 1963 Shantanu Narayen, il capo di Adobe dal 2007. Desiderava fare il giornalista, ma i genitori lo volevano ingegnere. Ha cominciato in Measurex Automation Systems, una start up, poi ha continuato ad avviare la sua società, Pictra, uno dei pionieri della condivisione di foto digitali su Internet, che alla fine ha deciso di vendere. Poco dopo è entrato in Adobe, dove ha sviluppato un centinaio di prodotti da Acrobat a Photoshop. Ora è diventato un alfiere dell’intelligenza artificiale come Neal Mohan di YouTube che in realtà ha percorso un itinerario inverso: anche lui indiano, è cresciuto negli Stati Uniti per poi tornare nella madre patria e rincasare assunto da Google. L’elenco è davvero lungo, ma non c’è solo il settore high tech. C’è Starbucks, preso in mano un anno fa da Laxman Narasimhan, nato anche lui a Puna, ma che viene da PepsiCo. Ha fatto notizia la sua decisione di vendere caffè mezza giornata al mese in una delle tante sedi del colosso americano: “Molte cose vanno sperimentate di persona”, ha spiegato. Troviamo la farmaceutica con Novartis (Vasant Narasimhan nato a Pittsburgh da genitori indiani), la moda con Chanel diretta da Leena Nair, naturalizzata britannica, la prima e più giovane al timone della maison. Proviene da Kolhapur nel Maharashtra, ha studiato ingegneria elettrica e ha lavorato a lungo nel suo paese prima di entrare alla Unilever dove ha insistito su due mantra: diversità e inclusione. Sposata con due figli, ama la lettura, la corsa e… i balli di Bollywood. Si può continuare con Arista Networks, Honeywell, Motorola, Micron, Flex e molti altri. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando la Germania prese tutti in contropiede.
Ricordate Gerhard Schröder, il leader socialdemocratico cancelliere tedesco dal 1998 al 2005? Ora ha fatto una brutta fine nelle braccia di Gazprom, ma allora fu protagonista di riforme coraggiose e di una rivoluzione culturale. Alla svolta del nuovo secolo propose di far arrivare in Germania ingegneri indiani specializzati in computer e telecomunicazioni. Apriti cielo. “I tedeschi sono forse troppo stupidi per i computer?”, tuonò in prima pagina la Bild Zeitung. Certo che no, ma si era creato un gap generazionale, troppi studi classici, una decadenza delle scuole professionali e dei politecnici, un tempo vanto del paese. Furono assunti migliaia di ingegneri indiani e contribuirono a colmare in parte il divario. Allora molti in Europa scoprirono quello che gli americani sapevano da tempo: un livello di istruzione molto alto, un forte indirizzo verso le discipline tecnico-scientifiche, una formidabile conoscenza della matematica e una grande voglia di emergere, tutto ciò ha favorito l’avvento di generazioni di giovani ingegneri specializzati in tutti i campi dell’elettronica e di veri maghi degli algoritmi. Il passo dalla teoria alla pratica è molto breve, così come il passaggio dallo studio dei nuovi prodotti alla gestione delle imprese. Se aggiungiamo il fattore linguistico (l’inglese è un secondo idioma, spesso è quello che consente di comunicare tra gruppi molto diversi nell’immenso subcontinente), possiamo capire tutti i vantaggi di assumere un tecnico, uno scienziato, un manager indiano. E lo stipendio? Sentiamo già il sottofondo terzomondista: stiamo sfruttando a basso costo il capitale umano formato in India. In realtà la busta paga non è affatto trascurabile. Anzi, proprio questo è uno dei problemi in Italia. Mancano tecnici e ingegneri, importanti società chiedono di importarli proprio dall’India dove il serbatoio è enorme, ma un limite fondamentale è il salario troppo basso.
Dietro all’atterraggio indiano sulla Luna, dopo gli gli Stati Uniti, la Russia e la Cina, c’è dunque un complesso insieme di fattori. E c’è, a differenza di russi e cinesi, anche il successo di questa leva di donne e uomini, ricca di conoscenza, esperienza e immaginazione, protagonista dell’ultima grande rivoluzione industriale che sta cambiando le nostre vite. Sono i figli di un lungo processo, ma anche di una riconversione culturale della quale è stato protagonista anche uno scienziato considerato il Von Braun indiano. Il suo nome è Vikram Ambalal Sarabhai, nato nel 1919 e morto nel 1971. Famiglia di imprenditori, studi di fisica in Inghilterra a Cambridge, torna nel 1947 nell’India appena indipendente, spende buona parte delle sue risorse per la ricerca scientifica e l’alfabetizzazione, nel 1962 fonda quella che diventerà l’organizzazione spaziale, la Isro, Indian Space Research Organisation. Siamo nel paese guidato dalla dinastia Nehru e da Indira Gandhi. A chi riteneva che bisognava concentrarsi nella lotta all’abissale povertà, Sarabhai rispondeva: “Ci sono alcuni che mettono in dubbio l’importanza delle attività spaziali in una nazione in via di sviluppo. Per noi non c’è contraddizione, se vogliamo svolgere un ruolo significativo a livello nazionale e nella comunità delle nazioni, non dobbiamo essere secondi a nessuno nell’applicare le tecnologie avanzate ai problemi reali dell’uomo e della società”. Non vide mai i primi satelliti lanciati insieme alla Nasa negli anni 70, ma il suo messaggio ha dato frutti in questo continente multiforme come le divinità del Mahābhārata, soprattutto una volta superata la vecchia strategia dell’elefante che guida i paesi in via di sviluppo in una terza via tra capitalismo e comunismo.
Ormai, il prodotto interno lordo indiano ha superato quello degli ex dominatori britannici. Un indiano, Gautam Adani (porti, aeroporti, centri dati) è diventato secondo l’agenzia Bloomberg uno degli uomini più ricchi al mondo con Elon Musk, Jeff Bezos, Bernard Arnault. Fa parte del cerchio magico di grandi famiglie: i Jindal e i Mittal signori dell’acciaio, i Tata nell’auto e quant’altro, gli Ambana che posseggono la più grande compagnia privata. Il modello Modi in economia ha funzionato meglio che in politica, dove il nazionalismo indù e il piglio autoritario alimentano conflitti e rivolte sanguinose. Il nuovo ciclo di sviluppo si regge su quattro pilastri. Il primo è la creazione di un mercato interno vero e unico nel quale imprese e consumatori possono usare un sistema finanziario moderno. Le infrastrutture hanno dato un contributo fondamentale, quelle fisiche come strade, autostrade, ferrovie, aeroporti e quelle immateriali come una rete digitale unica creata dallo stato. Il secondo pilastro è l’industria. A lungo l’India ha sperato di diventare la fabbrica del mondo, però la manifattura è rimasta rachitica, appena il 18 per cento del prodotto interno lordo. Adesso è cominciata una fase di espansione. I grandi gruppi sono l’avanguardia di un esercito composto da una miriade di aziende medie e da una platea ancora più vasta di laboratori e officine. Il terzo pilastro è la tecnologia, a cominciare dai servizi di telecomunicazione esportati in mezzo mondo. Non solo. Il paese ha investito moltissimo nelle energie alternative e oggi ne raccoglie i frutti. La domanda di veicoli elettrici supera ampiamente l’offerta e i produttori mondiali si fregano le mani: potranno compensare la riduzione della loro esposizione verso la Cina, in fondo gli indiani sono un miliardo e 430 milioni, poco più dei cinesi. Un altro vanto di Modi è il welfare digitale che consente l’accesso ai sostegni e a molti servizi senza passare per l’anchilosi burocratica, uno dei mali storici. Circa 950 milioni di persone ne hanno beneficiato con una media di 86 dollari a testa, se si pensa che la linea di povertà è fissata a 250 dollari all’anno, non è poco. Messi in fila tutti i più, arriva l’ora dei meno. Il paese resta a corto di capitali e dipende da un continuo flusso di capitali per far far fronte al perenne deficit nella bilancia dei pagamenti. Ciò è legato alla elevatissima dipendenza dal petrolio importato e da esportazioni che non riescono a colmare il gap. Il sistema finanziario, per quanto migliorato, resta ancora arretrato. Il livello di istruzione medio è ancora basso, in stridente contrasto con l’eccellente preparazione tecnico-superiore.
L’India ha sviluppato anche una sua strategia monetaria che colloca la rupia in competizione con il renminbi. E’ di questi giorni la notizia che la Russia si è riempita di rupie che non riesce a cambiare. E’ una illusione rimpiazzare il dollaro con una moneta dei Brics, o una sorta di paniere che ricorda il Bancor di Keynes e i diritti speciali di prelievo del Fmi. Invece, tra India e Cina è avviata una competizione anche finanziaria. Xi Jinping ha alzato i ponti levatoi della sua roccaforte, ciò devia i capitali mondiali verso altre aree asiatiche e certamente l’India è in grado di intercettarli. Oltre ai conflitti antichi sui confini s’aggiunge un contrasto economico di fondo. L’India oggi è più dinamica anche grazie al suo soft power tecnologico. Pechino finora ha guardato l’antico avversario dall’alto in basso. Nel 1978, quando Deng Xiaoping avviò la riforma economica, il prodotto interno lordo era pressoché identico a quello indiano, oggi è almeno cinque volte maggiore: 2 mila 600 miliardi di dollari contro 15 mila miliardi. Le sole esportazioni cinesi valgono quanto l’intero pil dell’India. Gli apparati militari non sono comparabili per quantità e qualità. Pechino, dunque, non ha dubbi: Delhi deve accettare il ruolo di numero due, ma è proprio quello che il nazionalista Modi rifiuta. Se gli Stati Uniti non vogliono perdere il filo nel nuovo mondo plurale, debbono approfittare di questa rinnovata rivalità, giocando le loro carte con l’astuzia della volpe più che con la forza del leone.