i rapporti con pechino
Dopo la Via della Seta, serve un altro tipo di accordo con la Cina
Per rendere meno amara l'uscita dal memorandum, il governo potrebbe puntare a una rinegoziazione del trattato bilaterale sugli investimenti di quasi quarant'anni fa
Nell’articolo di Giulia Pompili sul Foglio del 4 settembre è stato ben illustrato il dilemma in cui il governo italiano si dibatte da mesi: sapere di dover uscire dall’accordo strategico stipulato cinque anni fa con la Cina (il memorandum d’intesa sulla collaborazione nell’ambito della nuova “Via della seta”) e al tempo stesso di dover fare il possibile per evitare i danni che ne possono derivare sul piano politico ed economico. La Cina è tornata a essere una grande potenza, politica oltre che economica, e si può quindi comprendere che il governo si sforzi di non indispettirla, pur dovendo tenere conto non solo dell’insoddisfazione degli alleati americani, ma anche delle critiche mosse al governo cinese dalla presidente della Commissione europea, nel discorso del 30 maggio.
Una possibile soluzione consiste nel porre termine all’attuale memorandum, proponendo contestualmente un diverso tipo di accordo. Il memorandum ha un’evidente, notevole dimensione politica. Essa si manifesta nell’enfasi posta sul dialogo sulle politiche, sul coordinamento, sulle iniziative congiunte sulle grandi infrastrutture, come i porti, le reti di trasporto e le comunicazioni elettroniche. Si manifesta, inoltre, nell’espressa rinuncia ad attribuire al memorandum una valenza giuridica (“il presente memorandum d’intesa non costituisce un accordo internazionale da cui possano derivare diritti e obblighi”).
Il governo italiano potrebbe allora proporre un altro tipo di accordo, un vero e proprio trattato internazionale, rinegoziando il trattato bilaterale sugli investimenti stipulato con la Cina nel gennaio del 1985. Quasi quarant’anni dopo, le due parti contraenti sono assai cambiate ed è profondamente mutato il contesto, ciò che giustifica una rinegoziazione del trattato. Oltre tutto, esso è carente in più di un punto, alla luce dei trattati che sia l’Italia, sia la Cina hanno concluso con altri partner. Lo è, in particolare, nella parte relativa alla protezione accordata agli investimenti esteri, che andrebbe rafforzata con un riferimento esplicito alla clausola generale più diffusa, il fair and equitable treatment, e in quella riguardante l’espropriazione, in cui è opportuno inserire un riferimento al giusto procedimento. La tutela degli imprenditori italiani sarebbe assai migliorata, inoltre, dalla previsione di procedimenti arbitrali da loro esperibili, uno strumento sempre più diffuso nei trattati bilaterali.
Insomma, un’exit strategy può consistere nel rinunciare al memorandum, entro il termine da esso previsto, negoziando un buon accordo sulla protezione degli investitori dei due paesi. La nostra diplomazia può, deve, agire subito, preparando accuratamente il terreno per un’intesa politica, raggiungibile in occasione del viaggio di Giorgia Meloni in Cina. Sarebbe un buon modo per promuovere l’interesse nazionale
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