Ricostruire l'Ucraina
L'Ue ha un approccio a lungo termine con gli aiuti, l'America meno. Ma è l'Ucraina che sa come non sprecarli
Uno studio tedesco dice che l'impegno europeo nei prossimi anni è più grande di quello americano, ma è solo proposto e non concordato e senza ll'America è un guaio. Ma l'Ucraina saprà utilizzare bene questi fondi? Tre volte sì
Milano. L’ultimo report del Kiel Institute, un centro studi tedesco che monitora il sostegno all’Ucraina, mostra che il contributo internazionale dal gennaio del 2022, un mese prima l’invasione su larga scala della Russia, fino allo scorso luglio è pari a 277 miliardi di euro. Gli Stati Uniti sono dall’inizio i sostenitori più generosi, ma se si guardano gli impegni presi dall’Unione europea – e da Regno Unito e Norvegia – sul lungo periodo, il primato si ribalta. Secondo gli analisti, è l’approccio a essere diverso.
Il sostegno nel breve periodo, circa un anno, è più o meno simile, ma l’Ue sta proponendo sempre più strumenti di lungo periodo: l’Ukraine Facility, un programma da 70 miliardi di euro, dura fino al 2027. L’Economist sottolinea che “l’impegno è diverso dalla consegna”: lo è sempre e ancor più lo è nel caso europeo, dove gli aiuti sono stati proposti ma non ancora concordati, cioè si deve ancora negoziare. Semmai preoccupa il breve periodo americano, visto che nel calcolo del Kiel è compreso il sostegno finanziario, umanitario e militare, ma non la fornitura di armi, dove non c’è alcun paragone possibile: i 42,1 miliardi di armi e munizioni stanziati fino alla fine di luglio sono più del doppio di quelli del secondo paese, che è la Germania. Se dovesse diminuire il sostegno americano nel medio periodo, si creerebbe un buco incolmabile. Volodymyr Zelensky, presidente ucraino, ha detto sempre all’Economist che non è preoccupato da un ripensamento americano nemmeno se a vincere le elezioni del 2024 fosse Donald Trump, che non farebbe “mai” un favore simile a Vladimir Putin, dice Zelensky. Non ne sono tutti convinti, anche perché i media conservatori continuano a ripetere che Joe Biden sta dando “i nostri tesori” agli oligarchi corrotti dell’Ucraina e che il suo sostegno è collegato ai favori che il figlio del presidente americano, Hunter, ha ottenuto dalla società ucraina Burisma.
Bret Stephens, editorialista conservatore del New York Times, sostenitore dell’Ucraina dalla prima invasione russa nel 2014 e bandito a vita dal governo russo nel 2022 (“medaglia d’onore, ho incorniciato la notifica”), ha provato ad affrontare questa questione – gli aiuti e l’uso che ne fanno gli ucraini – seguendo a luglio, in parte della sua visita in Ucraina, Samantha Power, capo dell’Agenzia americana per lo Sviluppo internazionale. Nel racconto che ha pubblicato mercoledì, Stephens scrive che l’esito di questo sostegno dipende dall’andamento della guerra certamente, ma anche da altri due fattori cruciali: “La qualità del nostro aiuto e non soltanto la mera quantità, e quanto l’Ucraina è pronta a utilizzare in modo efficace e onesto questo aiuto”. Samantha Power, che è stata ambasciatrice all’Onu nell’Amministrazione Obama (non riuscì a convincere il suo capo che era necessario colpire il regime siriano di Assad dieci anni fa dopo l’attacco chimico a Goutha) e premio Pulitzer per il suo lavoro nei Balcani che è un caposaldo della dottrina dell’interventismo liberale e umanitario, esce dal racconto di Stephens come la risposta positiva alla domanda sulla qualità del sostegno all’Ucraina. L’approccio meticoloso della Power e l’esperienza passata, anche fallimentare, dell’Agenzia contribuiscono a creare oggi un’attenzione e una capacità di riconoscere le priorità invero promettenti, ma è come Stephens risponde alla domanda: l’Ucraina si mostrerà diversa da com’era e da come sono stati gli altri paesi ricostruiti dagli aiuti internazionali?, a essere rilevante. Gli ucraini hanno raggiunto la consapevolezza che le riforme istituzionali e culturali non sono soltanto condizioni imposte dall’esterno per procedere all’integrazione con gli organismi internazionali e per ricevere nel lungo periodo sostegno finanziario: sono l’occasione per rafforzare la propria indipendenza, che va certamente conquistata sul campo ma che poi va mantenuta nella società e nel palazzo. “Un cambiamento generazionale, le necessità della guerra e un’indicibile convinzione del fatto che ‘una crisi è una cosa terribile da gettare via’”, scrive Stephens, sono le radici di questa consapevolezza. Cita esempi concreti, ricorda che al comando dell’Ucraina ci sono persone che hanno vissuto più in un paese indipendente che sotto il regime sovietico (Zelensky aveva tredici anni nel 1991), dice che dare prova di questo cambiamento sarà oneroso, ma l’Ucraina della vittoria è un progetto a lungo termine: a questo servono gli aiuti.
Dalle piazze ai palazzi
Gli attacchi di Amsterdam trascinano i Paesi Bassi alla crisi di governo
Nella soffitta di Anne Frank