Piano con la crisi
La Polonia non abbandona Kyiv né lo fa l'America. Ma chiariamoci sulla “fine della guerra”
Varsavia non ha più armi da fornire all'Ucraina, che è diverso dal non volerle più inviare. Il presidente Zelensky a Washington disinnesca i bluff
Il tempismo delle dichiarazioni elettorali del governo polacco è pessimo per l’Ucraina e per il dibattito – spesso condizionato da uno scetticismo eccessivo – sulla tenuta dell’unità occidentale nel sostegno a Kyiv contro l’aggressione della Russia. Alcune di queste dichiarazioni hanno un effetto concreto: il blocco alle importazioni di prodotti agricoli provenienti dall’Ucraina, per esempio, serve certamente al governo del PiS di Varsavia per corteggiare l’elettorato rurale – si vota il 15 ottobre: speriamo che arrivi presto – ma è anche un sintomo di quel che potrebbe essere l’atteggiamento nei confronti dell’allargamento dell’Unione europea all’Ucraina, un paese enorme con un enorme settore agricolo destinato a cambiare molti equilibri europei. Altre dichiarazioni sono invece puramente elettorali e pur non avendo alcun impatto concreto sono altamente strumentalizzabili da chi vuole ridurre il sostegno all’Ucraina. Quella sulle armi sopra a tutte: il premier polacco, Mateusz Morawiecki, ha detto in un’intervista televisiva che “non stiamo più trasferendo armi all’Ucraina perché ora stiamo rifornendo la Polonia di armi più moderne”. La frase è stata tradotta nei titoli con: Varsavia non manda più armi a Kyiv, cosa in effetti grave, ma il governo polacco dice anche che “l’hub di Rzeszów, in accordo con gli americani e la Nato, ha e avrà sempre lo stesso ruolo”. La Polonia ha inviato 320 carri dell’epoca sovietica e 14 mig-29 e ora non ha più nulla da mandare all’Ucraina, che è diverso dal non volerlo fare.
Il tempismo pessimo, le parole utilizzate da Morawiecki e la crisi (seria) sul grano alimentano la teoria sulle spaccature dell’alleanza occidentale e sul sostegno declinante all’Ucraina, una teoria che si porta molto soprattutto negli Stati Uniti, a causa – anche qui – della campagna elettorale e della retorica antiucraina avviata da buona parte del Partito repubblicano. Ieri Volodymyr Zelensky era a Washington per la sua seconda visita alla Casa Bianca di Joe Biden; prima ha avuto un incontro con i leader del Congresso e i repubblicani hanno insistito sulla necessità di verificare la “accountability” ucraina, che detto in modo spiccio significa: Zelensky deve dimostrarci che si merita i nostri soldi (negli Stati Uniti, a differenza che in Europa, lo scetticismo riguarda più l’aiuto finanziario che quello militare). Durante la campagna elettorale questo scetticismo aumenterà, Zelensky lo sa e in un’intervista alla Cnn ha infatti detto: se davvero Donald Trump ha un piano per mettere fine alla guerra senza che Vladimir Putin resti a occupare territorio ucraino – come l’ex presidente ha detto domenica in una folle intervista all’Nbc – che lo rendesse pubblico, potrebbe essere utile. Zelensky vuole disinnescare dubbi e stanchezze varie finché è possibile e finché i dati mostrano che, al di là dei repubblicani e dei cantori della disunità occidentale, il sostegno all’Ucraina c’è ed è solido.
Secondo un sondaggio del Razom&Change Resarch, il 63 per cento degli americani è a favore degli aiuti militari, il 59 è a favore degli aiuti finanziari e il 63 è d’accordo sul fatto che “Putin va sconfitto subito”. Ecco, forse sui tempi della guerra serve una riflessione ulteriore. La fa l’Economist nel suo ultimo numero invocando “un ripensamento” dal punto di vista militare, finanziario, della sicurezza e soprattutto della volontà politica: “Troppe conversazioni sull’Ucraina si basano sulla ‘fine della guerra’. Vanno cambiate. Pregate per una vittoria rapida, ma pianificate una lotta lunga, e un’Ucraina che possa comunque sopravvivere e prosperare”.