In medio oriente
Nel sinjar conteso tra turchi, curdi e iraniani
Ognuno ha un interesse da difendere o da conquistare sulle pendici di questo monte iracheno, che è la terra degli yazidi straziati dallo Stato islamico. Gli ultimi droni di Erdogan
Nel mese di aprile, il governo iracheno ha riportato diverse famiglie arabe sunnite nel distretto di Sinjar, nel nord-ovest dell’Iraq, a poco più di cinquanta chilometri dal confine con la Siria. Per protesta, alcuni membri della minoranza religiosa yazida tornati in città si sono radunati davanti alla moschea di Rahman mentre un fuoco ardeva ai lati della strada e le forze di sicurezza sparavano colpi al cielo per disperdere la folla. Secondo un’informazione poi rivelatasi falsa, sui social ha cominciato a diffondersi la notizia che alcuni yazidi avevano appiccato un incendio all’interno del luogo sacro e la situazione ha rischiato di degenerare quando gli imam hanno incitato gli arabi nella regione a entrare nei campi per sfollati interni del Kurdistan per vendicarsi.
Quella porzione di terra alle pendici del Monte Sinjar – una catena montuosa che corre per un centinaio di chilometri e termina sul confine siriano – è sempre appartenuta alla comunità yazida, la minoranza che nel 2014 ha subìto un genocidio da parte dei miliziani dello Stato islamico che hanno ucciso gli uomini, ridotto in schiavitù le donne e arruolato i bambini nelle prime linee delle loro battaglie, bruciato le case, saccheggiato i negozi e fatto saltare in aria i santuari. Negli anni in quella regione sono cominciate ad arrivare anche le prime e regolari incursioni turche nel territorio iracheno, dove la Turchia possiede già una serie di avamposti, con l’obiettivo di colpire l’ala del Partito dei lavoratori del Kurdistan, o Pkk, e le Unità di resistenza del Sinjar, o Ybs, che Ankara ritiene entrambi gruppi terroristici. L’ultima volta è stata domenica, quella precedente la settimana prima, intensificando gli attacchi dei droni e colpendo più vicino alle aree urbane e sulle strade principali. Lunedì, al confine opposto nella regione del Kurdistan iracheno, un attacco di droni su un piccolo aeroporto vicino alla città di Sulaymaniyya ha ucciso tre membri di una task force d’élite antiterrorismo curdo che opera nella regione semiautonoma dell’Iraq. Baghdad ha fatto sapere che l’attacco era stato lanciato dalla Turchia e ha invitato Ankara – che non ha ancora commentato l’accaduto – a fermarsi. “Questa aggressione costituisce una violazione della sovranità, della sicurezza e dell’integrità territoriale dell’Iraq”, ha affermato il maggiore generale Yahya Rasoul Abdullah, portavoce militare del primo ministro.
Ankara possiede già degli avamposti, con l’obiettivo di colpire il Pkk e le Unità di resistenza del Sinja
Nella sua casa nel villaggio di Khana Sor, Nefya – che per quattro anni è stata in Siria e ha aiutato circa 450 donne yazide a tornare nei propri villaggi – chiama e conta sulle dita della mano destra le persone che sono morte negli attacchi nel corso degli anni, gli stessi di cui si vedono le foto affisse ai pali della luce lungo l’autostrada che porta in Siria. Dice che una delle più recentemente colpite era una casa in cui vivevano solo dei civili e non i combattenti, ma le informazioni dell’intelligence turca sono molto precise: “Quelli del Pkk ci hanno salvato e ci hanno addestrato, ma ora qui ci siamo solo noi yazidi. Non apparteniamo a nessuno, il Sinjar è pacifico e una terra bellissima, il nostro problema sono le incursioni turche. Quanto ancora dobbiamo sopportare?”. Quando Nefya dice che gli yazidi sono stati salvati, ricorda l’aiuto delle Unità di protezione popolare, o Ypg, una milizia presente nelle regioni a maggioranza curda nel nord della Siria e che durante la guerra al terrorismo ha rappresentato l’unico solido alleato interno della coalizione occidentale sul campo. Mentre lo Stato islamico assediava il Sinjar, loro hanno accolto gli yazidi, distribuito cibo, acqua e vestiti, sostituendo nella mente di molti il ruolo che era stato dei Peshmerga – dispiegati sul territorio quando l’Isis ha cominciato a impadronirsi della Siria orientale e poi del nord dell’Iraq – prima che abbandonassero le loro postazioni, così come aveva fatto l’esercito iracheno, nell’estate del 2014 a seguito dei primi attacchi dello Stato islamico nella regione. A quel punto, il gruppo ha aiutato ad aprire un corridoio sicuro dalle montagne alla Siria controllata dalle forze curde al Kurdistan iracheno, permettendo agli yazidi di fuggire: molti di loro si sono poi organizzati in milizie che sono tornate in Sinjar per combattere l’Isis. Passando dal versante nord a quello meridionale del Monte si percorrono quasi un centinaio di tornanti: guardando bene tra le rocce si scorgono più o meno ampie grotte scavate dai combattenti che ne hanno fatto le loro basi, mostrando così la volontà di non abbandonarla quella terra, ormai per ragioni strategiche e di sicurezza. Dal genocidio anche gli yazidi si sono divisi: una minoranza è tornata in alcuni dei villaggi, altri vivono nei campi per sfollati interni costruiti nel Kurdistan iracheno, mentre un’altra numerosa parte è rimasta a vivere sulla vetta del Monte Sinjar, l’unica via di fuga quando l’Isis ha attaccato i loro villaggi e che li ha salvati.
“C’è una forte competizione tra milizie, ognuno ha una sua agenda, ognuno ha qualcuno a cui rispondere e una propria base
Nella notte tra il 2 e il 3 agosto di nove anni fa, i miliziani sono entrati nelle case yazide, hanno preso le persone e intere famiglie sono state separate e distrutte, molti dormivano e non sono riusciti a scappare. “Quelli fortunati tra di noi, hanno preso le borse, le hanno riempite con vestiti, padelle e quanto di necessario hanno pensato potesse servire loro e si sono incamminati sulla montagna con i capi di bestiame al seguito”, ha raccontato Ibrahim seduto nella sua tenda su una delle cime del Monte. Ma era estate e le temperature insostenibili: ognuno di loro ha cominciato ad alleggerire quelle borse, lasciando andare qualsiasi cosa in quel momento non sembrasse più vitale e che si vede ancora oggi ai lati di quelle strade: capi di abbigliamento sbiaditi e induriti dal sole, attaccati al terreno arido dal tempo. Alcuni degli anziani e dei bimbi più piccoli non sono riusciti a terminare quel viaggio. “Abbiamo ancora le tende che sono state lanciate dagli aerei americani nel 2014 e se dovessero dirci di tornare nelle nostre città, quelle tende ce le teniamo, perché è solo questione di tempo e qualcosa di brutto contro di noi succederà ancora, quella non è stata la prima volta che siamo stati perseguitati”, prosegue Ibrahim. Quando i Peshmerga se ne sono andati, nella regione sono arrivate le sciite Unità di mobilitazione popolare irachene che rispondono a Baghdad e sono molto vicine all’Iran. Mam Fakhir è un capo religioso yazida e lo incontriamo nella sua casa nella città nuova di Sinjar, quella costruita dopo la guerra di liberazione: la parte vecchia è ancora distrutta, ricorda Mosul ma prima che la ricostruzione cominciasse. Parla di amore e dignità come le due cose a cui tutti i giorni è importante guardare, pensa che all’interno della regione dovrebbe esserci solo la polizia locale e al di fuori tutte le altre forze e che il governo centrale e quello del Kurdistan iracheno non dovrebbero mettere le mani sugli aiuti che arrivano per la popolazione. “Qui ci sono troppe forze di sicurezza che si dividono gli interessi del Sinjar perché è una terra strategica, sono passati quasi dieci anni e nessun passo in avanti è stato fatto, anzi forse siamo andati indietro. Quello che si vede è solo una forte competizione tra tutte queste milizie, ognuno ha una sua agenda, ognuno ha qualcuno a cui rispondere e che ha una propria base. Il governo centrale dovrebbe prendere delle decisioni coraggiose, ma non militari, bensì politiche per rimettere nel cuore del Sinjar le persone”. Nell’ottobre del 2020, il governo iracheno e quello del Kurdistan hanno siglato un accordo per garantire la sicurezza della regione che è una delle aree contese del paese e che risponde all’articolo 140 della Costituzione, per cui nel paese esistono quattordici distretti amministrativi distribuiti tra quattro governatorati rivendicati dal governo regionale del Kurdistan, ma che nominalmente rientrano nell’autorità del governo federale: sono i cosiddetti territori contesi. L’obiettivo dell’accordo era costituire una nuova amministrazione e permettere alle persone di tornare a casa: adesso, quello che si vede è un governo locale senza legittimità, servizi pubblici quasi inesistenti e una ricostruzione in forte stallo, con la presenza di diversi gruppi armati che mantiene l’area insicura e lascia il 70 per cento della popolazione locale sfollata.
Najim al-Jubouri è il governatore della provincia di Ninive in cui si trova il Sinjar e descrive con fatica gli sforzi necessari per portare avanti i progetti necessari allo sviluppo della regione. Nelle sue parole si sente la fiducia nella volontà del primo ministro Mohammed al Sudani di mettere in pratica l’accordo, di portare parte dei fondi del progetto di bilancio record da 153 miliardi di dollari alla ricostruzione del Sinjar e Tal Afar – una delle roccaforti dell’Isis –, di vedere collaborare davvero il governo centrale e quello del Kurdistan per trovare soluzioni per includere gli yazidi in Sinjar e gli arabi intorno a quell’area, ma ripete quanto tutto questo sia difficile perché non c’è luogo più complesso in Iraq in questo momento. Al Foglio dice: “Le milizie non vogliono che la situazione cambi: più possono restare e far sembrare che l’area non sia sicura, più hanno tempo per aumentare i loro interessi. Se le cose dovessero tornare normali, perderebbero il loro potere. Penso che in Sinjar non debba starci nessun gruppo, solo la polizia locale e l’esercito iracheno a circondare l’area, ma questa situazione non riguarda solo l’Iraq: il Sinjar si trova in un’unica posizione, è così vicino al confine con la Siria, ci sono in ballo anche Iran e Turchia ed è importante che i sindaci tornino nei loro distretti. Abbiamo bisogno di forti decisioni dal governo centrale e che quello del Kurdistan lo aiuti, ma più di ogni altra cosa occorre che le persone vengano incoraggiate a tornare nella loro terra”.