Quanto è grave (molto) la crisi dell'Egitto, che non è più una potenza
Mangiate le zampe di gallina, dice il governo. Dati e analisi su un’economia franata, l’effetto su al Sisi e sul Mediterraneo
Fritte, con le spezie, piccanti o in brodo. Le zampe di gallina sono una prelibatezza in estremo oriente, in Cina, Vietnam o nelle Filippine. I benefici della dieta asiatica non hanno convito però gli egiziani, dopo che il governo del Cairo ha consigliato alla popolazione perplessa di non gettare quelle parti del pollo, bensì di conservarle e mangiarle “perché molto proteiche”. Accade in Egitto mentre una profonda crisi economica influenza gli stili di vita, gonfia il malcontento sociale, rischia da una parte di innescare disordini, dall’altra di influenzare i rapporti internazionali.
L’Egitto sarebbe il secondo paese al mondo più vulnerabile a una crisi del debito: prima sulla lista c’è soltanto l’Ucraina in guerra, ha decretato Bloomberg. L’inflazione ha toccato ad agosto un massimo storico: è al 39,7 per cento. Il prezzo del cibo e delle bevande è salito in un anno del 71,9 per cento, mentre all’inizio dell’anno la valuta locale aveva perso metà del suo valore nei confronti del dollaro. Sono cifre che parlano chiaro e costringono la classe media a cambiare abitudini alimentari, eliminando per esempio la carne dalla spesa, mentre i più ricchi diminuiscono i viaggi all’estero e sempre più giovani cercano un secondo lavoro o addirittura un lavoro altrove, innescando una fuga di cervelli.
Se l’Egitto era riuscito a gestire gli effetti economici della pandemia di Covid-19, ha sentito invece il peso della guerra in Ucraina. La sua dipendenza dall’estero per l’importazione di grano e alimenti, ma anche la diminuzione dei turisti russi e ucraini sulle spiagge del Mar Rosso, hanno accelerato una crisi già in corso, in un paese che si affida ai sussidi statali per sfamare parte dei suoi cento milioni di abitanti. Il conflitto alle porte d’Europa serve però anche da giustificazione a una leadership in difficoltà. “Il governo vuole far passare che la crisi è legata a fattori esterni – dice al Foglio Timothy E. Kaldas, vicedirettore del Tahrir Institute for Middle East Policy – In realtà esistevano problemi strutturali ben prima del Covid-19 e della guerra in Ucraina”.
Queste debolezze dell’economia egiziana hanno progressivamente spinto gli investitori stranieri ad abbandonare il campo, portando via dal paese miliardi di dollari. Così, l’Egitto è a corto di valuta straniera. Per aggirare il problema, il governo ha avviato a luglio una tardiva serie di privatizzazioni con l’obiettivo di riempire al più presto le casse dello stato. Eppure, persino i vecchi amici come l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi, che dal 2013, con l’ascesa al potere del generale Abdel Fattah al Sisi e la fine del breve governo dei Fratelli musulmani, hanno tenuto in piedi l’economia nazionale con i loro aiuti, sono scettici. Nonostante i miliardi del Golfo, la crisi si espande e le riforme pretese dal Fondo monetario internazionale in cambio di un prestito da tre miliardi di dollari non si materializzano. L’Fmi assieme ai potentati del Golfo chiede al regime egiziano di ridurre la presenza del governo e soprattutto dei militari dalla vita economica del paese, per fare spazio alla concorrenza del settore privato e all’investimento estero. Chi è però contrario a questa linea è l’esercito, fondamenta dell’influenza del presidente al Sisi. Il potere del generale e la pervasività dei suoi militari sono cresciuti a dismisura dal 2013, proprio attraverso il radicarsi di aziende e società gestite dall’esercito. E sono proprio gli ufficiali a gestire i colossali progetti immobiliari e le grandi opere statali al cuore della propaganda del regime, come il cantiere della nuova e moderna capitale amministrativa, 35 chilometri a est del Cairo, finanziato con miliardi di dollari a debito. “L’aggressivo ruolo dei militari nell’economia è parte del problema – spiega Kaldas – Manca il business privato e lo stato si indebita per fornire i soldi alle aziende militari per la costruzione di infrastrutture che spesso servono a poco o nulla”, e possono però vantare inediti record: il sistema di monorotaia più lungo al mondo, il grattacielo più alto dell’Africa, che sorgerà nella nuova capitale nel deserto. E in questo contesto, le richieste del Fmi continuano a restare inascoltate: il governo egiziano a gennaio ha firmato un decreto per l’allocazione all’esercito di nuove terre a scopo commerciale.
Prosegue così la contrazione del settore privato non petrolifero, come raccontano i dati di settembre dell’indice S&P Global Egypt Purchasing Managers’ Index (Pmi), rimasto fermo a 49,2 in agosto, immutato da luglio, al di sotto della soglia del 50 che separa la crescita dalla contrazione. In un panorama controllato dai grandi conglomerati militari, le medie e piccole realtà private non riescono a competere, e molti sono gli investitori stranieri che non scelgono più il paese. Non che l’Egitto sia mai stato il regno dell’imprenditoria privata capillare: il monopolio dell’esercito esisteva anche all’epoca dell’ex presidente Hosni Mubarak, quando l’iniziativa privata era controllata da pochi uomini d’affari, legati a doppia mandata al Partito nazional democratico del presidente, attori economici ma anche politici: parlamentari e ministri. Dopo la loro uscita di scena, all’indomani della rivoluzione del 2011, i vari Ahmed Ezz, Youssef Boutros Ghali, Ahmed el Maghrabi non sono più parte del gioco. “Questo sistema permette il cristallizzarsi di una struttura gerarchica di potere – continua Kaldas – in cui nessuno può arricchirsi e costruire influenza senza fare affari con i militari”.
Le riforme richieste dal Fondo monetario e dal Golfo e le privatizzazioni parziali avviate in risposta dal regime rischiano dunque di infastidire la base di al Sisi: riformare significa togliere privilegi. L’annuncio nella primavera del 2022 di un dialogo nazionale – tutti ma non i Fratelli musulmani, l’unica opposizione credibile nel paese fino alla stagione di arresti del 2013 – stona in maniera profonda con la realtà di repressione in cui il governo ha immerso il paese. I prigionieri politici affollano le carceri, i numeri sono impressionanti: 60 mila almeno. Il dialogo non è in realtà mai partito, per molti osservatori si tratterebbe comunque di uno stratagemma del presidente per allargare la sua base, nell’eventualità di un indebolimento del sostegno militare. Oppure, rappresenta la volontà di costruire un improbabile argine in previsione di possibili disordini, fomentati dal malcontento sociale legato a una crisi economica mai affrontata.
Quando nel 2019 un oscuro imprenditore, ex appaltatore per aziende dell’esercito, iniziò a far circolare online video in cui rivelava cifre di corruzione legate al sistema del regime, in centinaia, nonostante le campagne di arresti, scesero in strada. La preoccupazione del regime era senza precedenti: a protestare, racconta Kaldas, non erano infatti i soliti noti attivisti o membri della Fratellanza musulmana. Erano cittadini frustrati, e nessuno negli uffici dell’intelligence e degli apparati di sicurezza sapeva chi fossero.
Se nei primi anni di austerità imposta dall’esecutivo per far fronte alle difficoltà economiche la popolazione aveva seguito le indicazioni della leadership – tenete duro, ne usciremo presto, è soltanto questione di tempo – “oggi dopo anni gli egiziani hanno perso fiducia in al Sisi”, dice Kaldas: “Il governo se ne rende conto, è preoccupato, il rischio di disordini cresce. Nell’ultimo anno e mezzo le critiche pubbliche nei confronti dei vertici sui social media sono aumentate, nonostante la repressione e gli arresti”.
La mancata gestione della crisi indebolisce il regime internamente, scopre il suo fianco al potenziale dissenso, lo costringe a riforme capaci di erodere le fondamenta del suo potere, e lo espone anche a livello internazionale. “L’Egitto ha smesso di essere una potenza regionale – dice Kaldas – non è più nemmeno una potenza locale. Lo si è visto durante l’ultima guerra a Gaza, a maggio, quando è stato il Qatar il più attivo tra i mediatori. Gli Emirati arabi sono intervenuti nel Sudan in guerra per salvare i soldati egiziani, quando il Cairo è stato per anni attore di peso nel paese. Oggi che mancano i soldi nelle casse dello stato, l’Egitto non soltanto ha smesso di influenzare altre nazioni, ma è esposto all’influenza di governi stranieri se potenziali donatori. Così, qui come altrove nell’Africa del nord, gli autocrati hanno reso i propri paesi vulnerabili, in casa e fuori”. Tale vulnerabilità si somma alle crisi economiche, politiche e naturali di Libia, Tunisia, Marocco, Algeria pesando sulla stabilità dell’intero Mediterraneo, il Mare Nostrum.