Salvini celebra la Cina all'ambasciata. Il mondo nuovo della propaganda
Altro che Via della seta. Il vicepremier sale sul palco della festa nazionale cinese a Roma per celebrare il ponte sullo Stretto. Lo stesso giorno in cui il Dipartimento di stato americano spiega come le ambasciate servono proprio a promuovere la manipolazione dell'immagine pubblica della Cina
“Non importa quanto siamo lontani, i veri amici sono sempre vicini”, ha detto giovedì sera l’ambasciatore cinese a Roma, Jia Guide, al ricevimento per il 74° anniversario della fondazione della Repubblica popolare. E poi, dopo che il diplomatico ha elencato “i miracoli” del Partito comunista cinese, sul palco centrale, tutto rosso fuoco, è salito il vicepresidente del Consiglio dei ministri, Matteo Salvini – proprio lui, la stessa persona che nel marzo del 2019 si rifiutò di partecipare agli eventi con la delegazione cinese guidata dal leader Xi Jinping in occasione della firma della Via della seta.
Salvini si è “congratulato calorosamente con la Cina” e ha detto di voler “consolidare ulteriormente le relazioni bilaterali” (così si legge nel comunicato dell’ambasciata cinese, l’unico a disposizione: il vicepremier non ha messo neanche una foto su X del suo discorso), e poi ha invitato l’ambasciatore “alla posa della prima pietra” del ponte sullo Stretto di Messina, cioè il chiodo fisso del ministro delle Infrastrutture, più o meno come Taiwan lo è per il Partito comunista cinese.
La presenza di Salvini è stata molto importante per Pechino dal punto di vista della comunicazione locale ma anche globale: davanti a seicento persone, tra rappresentanti delle istituzioni, giornalisti amici, ex presidenti del Consiglio come Massimo D’Alema, e il chiacchierato segretario generale della Fao Qu Dongyu, l’altro ieri sera a Roma si è celebrata la Repubblica popolare cinese con un evento che non si vedeva da anni. In rappresentanza del governo Meloni c’era pure il ministro del Made in Italy Adolfo Urso e il segretario generale della Presidenza del Consiglio Carlo Deodato. Per fare un esempio, nelle stesse ore, alla festa gemella all’ambasciata cinese a Mosca, c’era il megafono della propaganda del regime di Putin, Maria Zakharova, mentre a Washington i rappresentanti del governo presenti, tra cui l’assistente del Segretario di stato americano per gli Affari dell’Asia orientale Daniel Kritenbrink, non hanno preso la parola. Perché agli eventi diplomatici si viene invitati, e si partecipa, nell’ambito di un protocollo di giusto compromesso tra dialogo e distanza politica. Ma per non cadere nella trappola della propaganda e del sostegno implicito a certe attività coercitive della Cina bisognerebbe avere alcune accortezze.
Ieri il dipartimento di stato americano ha pubblicato per la prima volta un lungo studio di quasi sessanta pagine che spiega – con esempi – le attività della Repubblica popolare cinese per manipolare l’informazione internazionale con investimenti annuali da miliardi di dollari. Il metodo è chiaro, ma più sistematico di quanto si pensi: Pechino coltiva una “struttura globale” per “incoraggiare governi stranieri, membri delle élite, giornalisti e società civile ad accettare le sue narrazioni ed evitare di criticarne la condotta”. Le ambasciate sono spesso un luogo simbolo di questo metodo, e ancora di più lo sono i ricevimenti ufficiali, un pezzo fondamentale della diplomazia pubblica di un paese.
Sono quelle stesse sedi diplomatiche, però, a facilitare operazioni di propaganda e disinformazione: “I diplomatici cinesi fanno pressione sui media e sulle istituzioni accademiche della nazione ospitante affinché aderiscano alle narrazioni desiderate”, si legge nel documento del dipartimento di stato. “Hanno minacciato direttamente università e giornali di ritorsioni, ordinando loro di rimuovere i contenuti che ritengono offensivi”, con esempi concreti in Francia, dove l’ambasciatore cinese ha ripetutamente attaccato e criticato la stampa francese per aver “mentito” e “preso in giro” la Cina, in Germania e in Israele, dove l’ambasciata cinese avrebbe minacciato di “degradare i rapporti diplomatici” dopo che il Jerusalem Post aveva pubblicato un’intervista al ministro degli Esteri di Taiwan.