In medio oriente
Israele è in ostaggio del vicino
Cambia tutto per lo stato d'Israele se ha paura a rispondere al citofono. Gli oltre 700 morti, i sequestrati da Hamas e il valore di ogni singola vita umana
Ogni israeliano oggi ha un amico, parente, conoscente che non risponde al telefono. Forse è in salvo nascosto da qualche parte, forse è barricato in casa e non vuole dare segnali di vita, forse è ostaggio di Hamas, forse è morto. Numeri ufficiali non ci sono, i media israeliani parlano di settecento morti e il governo dice “più di cento ostaggi”: sono stime, crescono ogni ora. La furia dell’invasione di Israele da parte dei terroristi di Hamas si sente nelle voci incredule che raccontano l’inimmaginabile: siamo chiusi in casa, chissà quando ne usciremo. Questa incertezza è quel che rende il 7 ottobre 2023 un giorno unico nella storia di Israele, senza un paragone nel suo passato ma pure diverso rispetto a Pearl Harbor o all’11 settembre: gli israeliani non hanno un oceano di distanza dai loro nemici, ci vivono accanto, e il vicino di casa che vuole ammazzarti ora è dentro casa tua. Ha suonato ai citofoni per uccidere e rapire, ha divelto i tuoi cancelli, bruciato le tue auto, sparato e sparato e sparato. Quando la riapri, la porta di casa, dopo una cosa così?
Le immagini e i video che da due giorni arrivano da Israele sono sconvolgenti per ferocia, rapidità, stupore. Molte non sono pubblicabili, ma vanno guardate perché tra qualche giorno l’invasione di Hamas diventerà con tutta probabilità “un’incursione” e ci dimenticheremo la faccia della ragazza portata via che dice “non uccidetemi vi prego”, quella del ragazzino barricato in casa, la sorella uccisa, che ripete piangendo “non è vero che sta succedendo”, e i corpi nudi ostentati come trofei, il bambino ostaggio spintonato da altri bambini come lui, solo palestinesi, le scie di cadaveri per le strade, il terrore degli aggrediti, la gioia degli aggressori – l’umiliazione sopra a ogni cosa. Si guarda indietro al 1973, alla guerra dell’ottobre di cinquant’anni fa, la guerra dello Yom Kippur, per trovare riferimenti storici che possano dare sollievo: ce l’abbiamo fatta allora, ce la faremo anche adesso. Ma allora i commandos non erano entrati così in profondità nel territorio israeliano, e soprattutto sono passati cinquant’anni di tentativi di convivenza, più o meno riusciti, più o meno illuminati, più o meno fatali, ma Israele aveva imparato a sentirsi più al sicuro, suonavano le sirene degli allarmi e non tutti si rifugiavano, non per leggerezza ma per fiducia – la fiducia nella propria sicurezza. Ora non vuoi aprire la porta di casa, cinquant’anni sono stati bruciati e ammazzati e presi in ostaggio e non c’è modo di guardarsi intorno e vedere la via d’uscita.
Gli ostaggi alterano l’equazione della risposta – che già sui media internazionali è “escalation” o “vendetta” – perché se c’è una cosa che Israele ha sempre fatto è recuperare i suoi cittadini, vivi o morti, a qualsiasi costo. Negli ultimi diciotto mesi la guerra e le sue vittime hanno preso i connotati dell’aggressione russa contro l’Ucraina, lì abbiamo visto quanto rischiano gli ucraini per recuperare i loro corpi e quanto invece li ignorano i russi, che non danno valore alla vita umana e che anzi si sono messi a dare informazioni ai parenti dei soldati a seconda delle convenienze perché il risarcimento non deve essere eccessivo. In Israele questa distanza nel valore che ha la vita c’è da sempre e si misura con gli scambi che il governo di Gerusalemme di tutti i colori e coalizioni è disposto a fare pur di avere indietro i suoi corpi. In queste ore si ricorda il caso del soldato Gilad Shalit catturato al confine con Gaza nel 2006 da un commando arrivato da un tunnel: è stato restituito vivo dopo cinque anni di negoziati e il rilascio di 1.027 prigionieri palestinesi. Ora i leader di Hamas e del Jihad islamico dicono che ogni ostaggio significa centinaia di liberazioni, vogliono svuotare le prigioni e intanto rimpolpare le loro munizioni umane: basta fare un calcolo semplice per capire quanto è alto il rischio di questi scambi, devastanti e necessari allo stesso tempo perché sono crollate tutte le certezze, non ci si fida più di nessuno, non si può sacrificare anche questo principio liberale e democratico e antitotalitario del valore della vita umana. E mentre i commentatori liquidano le prossime fase con il termine escalation, Gerusalemme deve prendere ancora una volta, tante volte quanti sono gli ostaggi, la decisione più tragica: la misura di ogni singola vita, il suo prezzo.