I palestinesi in fuga
Il presidente egiziano al Sisi vuole mediare la pace a Gaza e sembrare meno debole
Al Cairo Tajani discute dei corridoi umanitari. L’impatto sul controllo dei flussi migratori e il problema del Sinai
Da una parte c’è la chiamata alle armi. Il leader di Hamas, Khaled Meshaal, dal suo ricco rifugio di Doha, oggi ha esortato i musulmani di tutto il mondo: “Mostrate la vostra rabbia contro sionisti e americani. Venerdì scendete in strada e manifestate”. Ha anche invocato un “jihad finanziario”, perché serve denaro per “sostenere chi resiste alla distruzione di Gaza”. Poi però ci sono le scelte politiche, e anche oggi, in occasione della visita al Cairo del ministro degli Esteri Antonio Tajani, il messaggio ripetuto dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi non poteva essere più freddo: “La questione di Gaza va risolta, ma non a spese nostre”. Ecco spiegata l’urgenza di una mediazione che Sisi vorrebbe intestarsi per arrivare a una tregua fra Israele e Hamas: scongiurare che i palestinesi fuggano in massa dalla Striscia per riversarsi proprio in Egitto.
Tajani arriva al Cairo nel giorno della riunione della Lega araba, convocata per discutere della guerra a Gaza. “La priorità è la liberazione degli ostaggi”, ha detto al suo omologo egiziano, Sameh Shoukry, al segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, e allo stesso presidente Sisi. La linea italiana è quella del sostegno agli sforzi diplomatici degli americani, che saranno approfonditi anche domani, in occasione del viaggio in Israele del segretario di stato Antony Blinken. “Siamo noi, gli americani e l’Egitto a sostenere la necessità dei corridoi umanitari. L’Egitto ha paura di un’ondata di profughi e noi capiamo perfettamente”, spiegano al Foglio fonti della Farnesina. Un tema che riguarda da vicino anche l’Italia, alla voce immigrazione: “Il Cairo teme una destabilizzazione generale che porti a un allentamento dei sistemi statuali della regione e quindi a un’incapacità di controllo dei trafficanti di migranti”, dice il funzionario italiano.
Il valico di Rafah, l’unico che collega la Striscia di Gaza al resto del mondo, fino a mercoledì era ancora chiuso. I bombardamenti di Israele, tre nel giro di 24 ore, ma anche la volontà dell’Egitto, che non vuole rischiare un’invasione di palestinesi in Sinai, hanno mantenuto la frontiera invalicabile ai palestinesi che provavano a fuggire. Perché la solidarietà nei loro confronti, a parole, è d’obbligo, ma poi c’è da guardare alla realtà: per Sisi i palestinesi di Gaza sono un elemento di destabilizzazione, una minaccia persino. Nel Sinai, i problemi sono già tanti – dalla crisi economica all’estremismo islamico. La sua proposta, sostenuta da Tajani, è allora di aprire corridoi umanitari fra Gaza e Israele, lasciando stare altre soluzioni che al Cairo vedono come provocazioni. Martedì, un portavoce delle Forze armate israeliane aveva esortato i residenti di Gaza ad “andarsene in Egitto”, attraverso Rafah, salvo poi rettificare l’invito precisando che “il valico di Rafah era aperto ieri, ma ora è chiuso”. Il tema della “deportazione forzata” dei palestinesi in Sinai è vecchio di anni. In Egitto lo considerano un piano premeditato di Israele per spazzare via Gaza ed esportare il problema dei suoi residenti altrove.
Ma al di là della sorte dei palestinesi, Sisi vede la mediazione di un nuovo cessate il fuoco tra Hamas e Israele come un’opportunità politica. “Nessuno ha il peso diplomatico che ha l’Egitto per negoziare una tregua a Gaza. Persino il Qatar, che è coinvolto nelle trattative, deve sempre coordinarsi con il Cairo”, spiega al Foglio Omar Shaban, analista del think tank di Gaza PalThink. A maggio 2021, dopo avere negoziato la tregua fra Hamas e Israele, Gaza fu coperta di gigantografie del presidente egiziano, celebrato come difensore della causa palestinese. Pochi mesi dopo, Sisi riuscì a vincere la freddezza che Joe Biden nutriva nei suoi confronti e concluse con gli Stati Uniti un accordo da oltre 2 miliardi di dollari in aiuti militari. Oggi la situazione per il regime egiziano è molto diversa. La crisi economica che attraversa il paese è grave. Il Fondo monetario internazionale e i paesi del Golfo sono reticenti ad andare in suo aiuto in assenza di un vero piano di privatizzazioni. Da ultimo è arrivato lo scandalo che ha interessato il senatore americano Bob Menendez, che due settimane fa si è dimesso dalla carica di presidente della commissione Affari esteri del Senato perché imputato per una fuga di notizie confidenziali che avrebbe rivelato proprio al governo egiziano. Di conseguenza, adesso l’intera cooperazione militare fra Washington e il Cairo è sotto esame e il Senato ha già bloccato oltre 200 milioni di dollari in aiuti militari. Per questo, la guerra a Gaza potrebbe essere la svolta inattesa che Sisi aspettava, dice al Foglio Hugh Lovatt analista dell’European Council on Foreign Relations: “Spesso l’Egitto ha sfruttato il suo peso politico per ottenere qualcosa in cambio e presentarsi a Europa e Stati Uniti come partner indispensabile per stabilizzare la regione. Finora è stato questo l’elemento principale che ha permesso al regime di respingere ogni critica ricevuta per le sue violazioni dei diritti umani”.
Sisi non vanta il legame con Hamas che aveva l’ex presidente della Fratellanza musulmana, Mohammed Morsi, “ma in questi anni il rais egiziano ha capito quanto sia prezioso per la sicurezza dei confini tenere il dialogo aperto anche con loro”, dice Shaban. Lo scorso giugno, su invito degli egiziani, sono sbarcati al Cairo il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, e quello del Jihad islamico, Ziad al Nakhalah, entrambi protagonisti dell’aggressione armata a Israele. Sul tavolo c’era il tema del rafforzamento della loro “relazione speciale al servizio della resistenza palestinese”.