i due fronti della guerra

La coperta del sostegno a Kyiv e a Gerusalemme non è troppo corta

Paola Peduzzi

Sotto certi aspetti Ucraina e Israele combattono lo stesso nemico. Ma nel Congresso americano, dove si decidono gli aiuti agli alleati, si fatica a trovare accordi

Se gli israeliani smettono di difendersi, Israele non esisterà più, diceva cinquant’anni fa Golda Meir, premier nata a Kyiv, la capitale ucraina dove oggi si dice la stessa cosa: Vladimir Putin può smettere di attaccare anche subito, ma non lo fa, l’Ucraina non può smettere di difendersi, perché non esisterebbe più. La linea netta che collega la battaglia di Kyiv e quella di Gerusalemme è stata tracciata da Volodomyr Zelensky perché il nemico totalitario è simile – se si risale la catena dei finanziamenti di Hamas quasi coincide – e perché il sostegno è unico.

 

 

La conta dei morti – mille e più, una conta straziante perché a ogni passo emergono cadaveri, fosse comuni, segni di un’efferatezza sconvolgente – rimbalza dal sud di Israele invaso dai terroristi di Hamas a quella che va avanti da quasi seicento giorni in Ucraina, dove ogni giorno piombano missili su edifici e persone. “Non ci sono più regole”, scrive Anne Applebaum, la violenza contro i civili è stata sdoganata: “Entrambi gli aggressori hanno mostrato una forma moderna di terrorismo sofisticato e militarizzato” e “i terroristi non combattono guerre convenzionali, non obbediscono alle leggi della guerra”. Hamas non lo ha mai fatto, ammazza ebrei – militari e civili, per statuto, nell’articolo 7: più passano le ore più i racconti dei sopravvissuti, i silenzi di amici e parenti che chissà dove sono e le scoperte di corpi che raccontano le ultime ore prima della furia – genitori uccisi davanti ai propri figli poi uccisi anche loro, anziani bruciati vivi – ne testimoniano la brutalità. Il fatto di essere un’entità “per la liberazione” e non uno stato ha permesso nel tempo ad Hamas di ribaltare il senso delle regole.

Alle Nazioni Unite, dove queste regole dovrebbero essere fatte rispettare, la loro assenza risuona forte. Lunedì 9 ottobre nel pomeriggio, il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu ha osservato un minuto di silenzio per le vite perse nei territori palestinesi su richiesta dell’ambasciatore pachistano che ha detto che queste vittime “ricordano tristemente l’effetto di sette decenni di occupazione straniera illegale, di aggressione e di mancanza di rispetto della legge internazionale”. La Russia ha cercato di riprendere il suo posto in questo Consiglio da cui era stata sospesa dopo l’invasione dell’Ucraina: ieri c’è stata la votazione per il rinnovo di quindici dei quarantasette membri del Consiglio. Quest’anno,  due gruppi avevano più candidati dei seggi disponibili: uno era quello dell’Europa dell’est, con Albania, Bulgaria e Russia a contendersi due seggi. Mosca non è riuscita nel suo intento, ma ha preso comunque 83 voti, ha avuto la possibilità di ribadire che “non c’è paese che si dichiara democratico che non violi i diritti umani” e comunque ha il seggio con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza a tutela di ogni suo crimine.

Il fronte comune della difesa contro il terrorismo non è una coperta corta da strattonare di qui e di là. Un articolo di Politico Europe diceva ieri che Hamas ha fatto un regalo di compleanno a Vladimir Putin – è nato il 7 ottobre, la data che Israele ricorderà come il suo giorno più tragico – perché l’occidente ora si concentrerà sul medio oriente e leverà attenzione al sostegno dell’Ucraina. E’ una ipotesi che viene discussa – e temuta – da molte parti e fa il paio con l’idea che gli alleati di Kyiv fossero già stanchi e che questo è un pretesto nobile per dirottare risorse e attenzioni altrove. In realtà, la difesa di Israele è quanto di meno unitario ci sia in occidente, in Europa soprattutto, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, basta vedere il pasticcio fatto sugli aiuti. Negli Stati Uniti, dove si definisce la misura del sostegno di Israele e dell’Ucraina, avviene quasi il contrario: da ultimo erano gli aiuti a Kyiv a essere strumentalizzati dal Partito repubblicano e quindi messi in discussione, laddove invece il sostegno a Gerusalemme è bipartisan  – la critica all’Amministrazione Biden è di aver voluto un appeasement pericoloso con la Repubblica islamica d’Iran. Ma il problema dell’America non è la coperta troppo corta, non ancora almeno, né la stanchezza di guerra, non ancora almeno: è un Congresso a trazione repubblicana che non funziona, non trova un suo presidente, non trova accordi su quasi nulla e usa gli aiuti internazionali come alibi al fatto che non riesce a pagare nemmeno gli stipendi degli americani.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi