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L'ideale

Difendere Israele sotto l'Arco di Tito, fare come Freud che ci andava sempre e da lì scrisse: ‘L'ebreo vive ancora'

Giulio Meotti

Lì dove si erano sempre rifiutati di passare per secoli, nel 1947 il rabbino capo di Roma, David Prato, diede appuntamento alla sua comunità dopo la nascita di Israele per sancire la fine di un'epoca. La visita di Shimon Peres e il rifiuto della cancel culture

Proprio lì dove si erano sempre rifiutati di passare per secoli, l’arco di Tito, che mostra il futuro imperatore che guida una processione di soldati romani ed ebrei catturati che portano il bottino del tempio, inclusa la Menorah, nel 1947 il rabbino capo di Roma, David Prato, diede appuntamento alla sua comunità per celebrare la risoluzione dell’Onu che sanciva la nascita d’Israele. “Sfilare sotto quell’arcata significava rappresentare simbolicamente la conclusione di un’epoca: la storia aveva compiuto un giro completo e l’onta poteva considerarsi cancellata”, si legge nelle cronache del tempo. 

Per questo hanno fatto il giro del mondo le immagini della veglia oratoria per Israele che il Foglio ha organizzato sotto l’Arco. Vedere la bandiera israeliana proiettata sulla Torre Eiffel, la Porta di Brandeburgo e l’Opera House di Sydney ha fatto impressione, ma come raccontano i giornali israeliani, “il punto di riferimento scelto a Roma ha una risonanza speciale per gli ebrei”. Nel 1985 Shimon Peres, allora premier d’Israele, in visita a Roma sostò in preghiera sotto l’Arco. Come farà nel 2010 il capo di stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi. E nel 1997 Oscar Luigi Scalfaro e il rabbino capo Elio Toaff accesero sotto l’Arco la prima candela di Chanukkà, la festa che richiama la lotta per la libertà religiosa. Quel gesto coincise con le celebrazioni per i cinquant’anni della fondazione di Israele. “Per duemila anni gli ebrei non passavano vicino all’Arco, perché rappresentava la catastrofe” dice al Foglio lo storico e psicoanalista David Meghnagi. “Dopo la Shoah anche i soldati della Brigata ebraica si sono riuniti lì, per dire ‘siamo vivi’.

Una cartolina di Freud con l’arco di Tito dice: ‘L’ebreo vive ancora’. Ogni volta che Freud veniva a Roma visitava il museo di Michelangelo e l’Arco di Tito. Nel 1947 il rabbino capo Prato va con tutta la comunità sotto l’arco, un simbolo della catastrofe subita e l’eliminazione del termine ‘Israele’ con la sua sostituzione del termine ‘Palestina’ dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Si tentò di fare cancel culture del popolo ebraico, costruendo il tempio a Giove e cambiando nome al territorio. Oggi si rivendica la propria esistenza mentre Israele è sotto attacco. Un gesto simbolico per dire ‘quella cosa lì non si ripeterà’, con i pericoli che ci sono oggi col terrorismo islamista che vuole trasformare il conflitto mediorientale in uno fra islam ed ebraismo e islam e occidente. Questo impegno non è contro il popolo palestinese, ma una benedizione che impedisce la trasformazione del Mediterraneo in una roccaforte islamista”. Nel 1949 il vignettista israeliano Navon ritrasse David Ben Gurion e Golda Meir che prendono la Menorah dall’Arco di Tito e la portano a Gerusalemme. Due giorni fa, il nipote di Golda Meir è stato ucciso difendendo il kibbutz di Nahal Oz. Perché l’ebreo viva ancora.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.