l'analisi
I due pilastri di una strategia di difesa efficace per Israele
Di fronte a una minaccia esistenziale, serve un’opzione militare efficace e uno scopo politico chiaramente delineato
Più ore, giorni trascorrono dalla mattanza di sabato 7 ottobre più diventa evidente il dilemma strategico di Israele, un dilemma che appare al momento di difficile soluzione. Come restaurare la credibilità della sua capacità di proteggere le vite dei suoi cittadini, la sopravvivenza dello stato ebraico e la deterrenza nei confronti dei suoi nemici, vicini e lontani? Occorre una strategia per uscire da quella, omicida, bestiale, ma maledettamente ben costruita di Hamas. Al momento le ipotesi sul campo sono essenzialmente due: quella dell’assedio integrato da bombardamenti sistematici dalla potenza devastante (già immediatamente attuata) e quella dell’ingresso massiccio nella Striscia, eventualmente con l’ambizione di assumerne il temporaneo controllo per sradicare la presenza di Hamas.
Nessuna di queste due ipotesi è esente da rischi giganteschi, il più grave dei quali essendo – per i vertici politici e militari di Israele – quello dell’insuccesso: ovvero dell’inefficacia. Nel caso di un lungo assedio integrato dai bombardamenti è facile immaginare l’effetto di solidarietà e di emulazione attiva che le immagini dei morti palestinesi potrebbero evocare. L’opinione pubblica è volubile e dopo settimane di bombe su Gaza le tragiche immagini dei bambini, delle donne, degli anziani e dei giovani uccisi e rapiti dai terroristi di Hamas saranno coperte da altre immagini. Non è poi detto che una simile condotta sarebbe efficace nel far cessare la pioggia di missili che continua a colpire il paese e, potrebbe far salire le provocazioni da parte di Hezbollah sul confine libanese suscitando le reazioni degli arabi israeliani e di quelli dei Territori occupati. Basta fare un giro sui media arabi, dal libanese Naharnet alla qatarina al Jazeera, per rendersi conto dell’aria che tira e della lettura – opposta a quella occidentale – che i loro editoriali forniscono. Ma un’invasione di terra a Gaza significherebbe mettere in preventivo almeno 10 mila morti tra i palestinesi (e la stima è molto prudente) e centinaia di morti (se non di più) tra le truppe dell’Idf. Anche in questa seconda ipotesi, poi, i rischi di contagio nell’area sarebbero elevati, persino di più.
Il fatto è che, se queste sono le carte che Israele ha in mano, sono pessime carte. Ma, se non riesce a procurarsene altre, proprio tra queste pessime carte dovrà scegliere. Perché credo sia evidente che Israele non solo ha tutto il diritto di reagire dopo ciò che ha subito sabato scorso: non un grave attentato terroristico ma una offensiva militare perpetrata attraverso il ricorso al terrorismo. Quindi Israele ha il dovere, oltre che il diritto, di mettere in campo non una “rappresaglia” ma una “controffensiva”, che dovrà essere in grado non di punire i colpevoli o vendicare le vittime ma di degradare l’efficienza militare del nemico, distruggerne se possibile le capacità di comando e controllo, eliminare quanti più membri delle sue brigate.
Affinché qualunque strategia possa essere efficace, però, deve essere guidata da scopi politici raggiungibili, dotata delle forze militari appropriate e avere le idee chiare su quale prezzo si sia disposti a pagare e si possa a sostenere per raggiungere lo scopo politico che determina gli obiettivi militari. Hamas ha mostrato di avere ben chiara questa classica e sempre vera lezione impartita da Clausewitz circa un paio di secoli orsono: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Ovvero la “ragione militare” deve sempre essere sempre guidata dalla “ragion politica”. Lo scopo di Hamas era impedire che il raggiungimento di una normalizzazione delle relazioni regionali tra Israele e le monarchie del Golfo potesse avvenire “a discapito” della questione palestinese. Intendiamoci molto bene su questo punto: il modo di risolvere la questione palestinese, per i tagliagole di Hamas, è la distruzione dello stato di Israele. Evidentemente irricevibile per il governo israeliano e per tutte le capitali delle democrazie. Hamas ha anche puntato sulla circostanza che più il massacro fosse stato bestiale più Israele sarebbe stato “fatalmente attratto” nella trappola di Gaza, dove i miliziani avranno allestito ogni tipo di contromisura per massimizzare le perdite dell’esercito israeliano. Hamas ha anche messo in conto che questo potrebbe comportare la morte di decine di migliaia di residenti di Gaza e ha scelto di accettarlo. Perché ha ritenuto che questa fosse l’ultima finestra di opportunità per raggiungere il suo scopo politico e perché spera che uno scontro sanguinoso e prolungato possa costituire la premessa per provocare una sollevazione generale contro lo stato ebraico.
Per fugare ogni possibile fraintendimento, sto sostenendo che Israele si trovi oggi di fronte – per davvero e per la prima volta dai tempi della guerra del Kippur, cinquant’anni fa – a una minaccia esistenziale. Per affrontare la quale dovrà predisporre una strategia articolata su due componenti. La prima è un’opzione militare che sia efficace rispetto a quanto indicavo in premessa e in grado di minimizzare il rischio di un allargamento del conflitto. In tal senso è fondamentale saper uscire dalla strategia predisposta da Hamas. Ai militari sta l’indicare come, forse un ingresso limitato nella Striscia accompagnato da un impiego consistente di forze speciali, in grado di localizzare ed eliminare – anche con l’aiuto dell’aviazione – le strutture, le piattaforme di lancio e i quadri politici e militari dell’organizzazione terroristica potrebbe essere la via, ma è solo un’ipotesi.
La seconda è dotarsi di uno scopo politico perseguibile e chiaramente delineato. Israele non può illudersi che il sostegno europeo e soprattutto americano e una serie di accordi con gli altri stati della regione possano garantirgli la pace. La minaccia esistenziale per lo stato ebraico non viene “dalla regione”, viene da molto più vicino, “dai suoi confini”, e la sicurezza senza una soluzione della questione palestinese è impossibile. Occorrerà rapidamente creare le condizioni perché i palestinesi possano esprimere una leadership disponibile alla convivenza con Israele, come avvenne dopo gli accordi di Oslo. Aver pensato di potersi garantire la sicurezza dalle minacce esistenziali sull’uscio di casa attraverso accordi con stati che non hanno mai costituito un credibile pericolo per la sopravvivenza di Israele ha rappresentato un errore strategico che lascia ora il governo israeliano con poche e brutte carte da giocare. E’ su questa debolezza politica della strategia israeliana che Hamas ha costruito la propria. E fino a questo momento continua ad avere l’iniziativa.
I contorni del danno reputazionale inflitto da Hamas a Israele emergeranno nelle prossime settimane e io credo che si riveleranno enormi. Quello che gli amici di Israele dovrebbero suggerire oggi al suo governo non è una generica “moderazione”, ma la capacità di elaborare rapidamente tanto la componente politica quanto quella militare di una strategia efficace, sostenibile e capace di spostare l’inerzia dell’iniziativa dai terroristi all’esercito israeliano, da Hamas allo stato di Israele. Un’invasione massiccia via terra e la continuazione dell’assedio e dei bombardamenti a tempo indeterminato non costituirebbero la testimonianza che Israele ha assunto l’iniziativa, perché dobbiamo presumere che entrambe queste mosse saranno già state anticipate nella strategia elaborata da Hamas.
Non c’è dubbio che non sarà facile trovare il modo, ma occorre farlo e farlo rapidamente: sia per evitare che il conflitto possa allargarsi sia perché la mobilitazione massiccia dei riservisti non può continuare indefinitamente in un paese in cui ogni giovane adulto, maschio o femmina, è richiamato sotto le armi. Per tutti questi motivi sostengo che Hamas – molto più l’Iran – rappresenti una minaccia alla stessa sopravvivenza di Israele e che la sua eradicazione richiede un’opzione che sia militare e politica, capace di danneggiare il movimento islamista e di suscitare alternative credibili per i palestinesi, e non si riduca semplicemente al pur legittimo desiderio di punire i colpevoli e vendicare i propri morti o all’illegittimo e controproducente ricorso a una punizione collettiva.