L'analisi
L'arma impropria. Cinquant'anni dopo lo Yom Kippur, torna l'incubo petrolifero
La verità dietro il capovolgimento dei rapporti di forza in Medio oriente. Ma questa volta la tempesta sarà imperfetta. Ecco cosa è cambiato
I razzi, gli uomini volanti sui parapendio a motore, la ferocia, le stragi. Mentre un terrore altrettanto potente incombe su Israele e sul mondo intero: mezzo secolo dopo torna l’incubo petrolifero. La guerra dello Yom Kippur nell’ottobre del 1973 innescò la più grave crisi economica dalla fine della seconda guerra mondiale e rivelò che l’oro nero poteva essere una bomba formidabile contro l’occidente. Oggi l’attacco scatenato dai miliziani palestinesi ha evocato lo stesso spettro, ma l’arma del greggio ha perso la sua efficacia. La logica di potenza spinge i prezzi: Russia, Iran, Arabia Saudita puntano in alto; la logica del mercato punta in basso. La vera novità, però, è un capovolgimento dei rapporti di forza che troppo spesso viene trascurato. Il Grande Satana è sempre lo stesso, solo che allora l’America era assetata di petrolio e l’embargo la colpì a fondo alimentando la fiamma dell’inflazione, invece oggi i petrolieri del Texas hanno soppiantato gli sceicchi del deserto, gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori mondiali di petrolio e di gas e anche primi esportatori. Se gli arabi decidessero un embargo per punire Israele finirebbero per essere puniti essi stessi. L’Iran sciita che combatte contro l’Arabia sunnita, nello Yemen apertamente e ovunque in modo subdolo, potrebbe cedere alla voluttà del caos, però ne sarebbe travolto. In paesi dipendenti dal mondo islamico come l’Italia c’è il timore che si riducano i flussi dall’Algeria filopalestinese o si fermino le navi del Qatar che s’è comprato la striscia di Gaza e ospita i capi di Hamas. Eppure, chiudere i rubinetti non conviene nemmeno ai grandi esportatori. La tempesta è scoppiata, ma è tutt’altro che perfetta. Il gioco degli scambi sembra scontare questa imperfezione: dopo un primo sobbalzo, i prezzi di riferimento per il greggio sono rimasti attorno agli 85 dollari al barile, lontani da quota cento, barriera più che altro psicologica.
Il petrolio ha dominato il Novecento così come il carbone ha segnato l’Ottocento con il suo nerofumo che, narrava Charles Dickens, s’attaccava come colla alle facciate delle case. In questo terzo decennio del nuovo secolo, sentiamo gli ultimi gorgoglii di quel liquido oscuro padrino di tutti i complottardi pasoliniani? I signori dei pozzi stavano già scaldando i motori prima che Hamas lanciasse la sua offensiva. “La domanda globale di petrolio salirà a 110 milioni di barili al giorno in circa 20 anni, spingendo il fabbisogno mondiale di energia del 23 per cento” spiegava nel giugno scorso Haitham Al Ghais, il diplomatico kuwaitiano segretario generale dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), intervenendo alla conferenza inaugurale Energy Asia tenutasi nella capitale malese di Kuala Lumpur. Secondo Al Ghais, “il petrolio è insostituibile per il prossimo futuro”, infatti nei prossimi due decenni coprirà ancora circa il 29 per cento del mix energetico. Cifre in contrasto con quanto stimato dall’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) che prevede una riduzione della domanda annua da 2,4 milioni di barili al giorno nel 2023 a 400.000 barili al giorno nel 2028. Per il segretario generale dell’Opec, il sotto investimento nell’industria petrolifera metterà in discussione la fattibilità degli attuali sistemi e porterà ad un “caos energetico”. Questo succedeva prima della catastrofe di Gaza. Intanto l’Opec tagliava la produzione per sostenere i prezzi, l’America comprava per riempire le proprie riserve strategiche, le quotazioni in calo nei mesi precedenti prendevano a salire e si preparava la tempesta. Ma perché l’abbiamo definita imperfetta? Per capirlo, torniamo ai fondamentali: la domanda, l’offerta, le riserve naturali, la transizione energetica. E la politica.
L’Opec fa i propri interessi e Al Ghais fa naturalmente gli interessi dell’Opec quando sottolinea la sostanziale stabilità del mix energetico con i combustibili fossili che continuano a rappresentare l’80 per cento del totale, come 30 anni fa. Però non ha torto, è senz’altro così, nonostante le campagne contro gli idrocarburi, nonostante la spinta per il tutto elettrico a cominciare dalle auto, le fonti energetiche prevalenti restano ancora sotto terra ed è irrealistico pensare che nel giro di pochi anni accada il contrario. Con buona pace della riduzione delle venefiche emissioni di gas serra. Certo, un taglio c’è stato, sia chiaro, la grande stabilità immaginata da Al Ghais nasconde in realtà un grande cambiamento in atto: nei paesi più industrializzati tra il 2010 e il 2021 le emissioni generate dall’uso dei fossili sono diminuite dell’1,2 per cento annuo, con una lieve accelerazione dal 2015. Non basta, tuttavia conferma che l’aumento della CO2 ormai dipende soltanto dai paesi in via di sviluppo, a cominciare dai quattro Brics, cioè Brasile, Russia, India e Cina, anche se i cinesi che hanno pochi idrocarburi, a differenza della Russia e dello stesso Brasile, sono alla ricerca del mix ideale. Pechino punta su sole, vento, acqua, insomma le fonti rinnovabili, mentre moltiplica in modo forsennato la costruzione di reattori nucleari. Stando ai dati del report di S&P Global Ratings, la Cina già prevede di “raddoppiare la quota del nucleare nel suo mix energetico entro il 2035, portandola a quasi il 10 per cento della produzione”. Seguono Stati Uniti ed Europa.
Un rapporto firmato da Ernst & Young e Oxford Analytica mostra che, dopo una crescita del 53 per cento su base annua con a 2.700 miliardi di dollari nel 2021, gli investimenti sostenibili sono alle prese con una prova di credibilità. “La domanda di gas dovrebbe continuare ad aumentare fino al 2030” prevede il report. Eppure, proprio l’utilizzo del metano divide i paesi sviluppati e gli emergenti, al netto delle conseguenze del conflitto in Ucraina e della nuova guerra in Palestina. “La sicurezza dell’approvvigionamento e lo svantaggio di prezzo del gas rispetto al carbone e alla produzione di energia nucleare, fanno sì che in Cina, sebbene il suo utilizzo sia in aumento, rappresenterà solo il 9 per cento del mix energetico”. Negli Usa invece raggiungerà quota 30 e in Europa energie rinnovabili più gas “potrebbero rappresentare il 20 per cento del fabbisogno”, scrive l’indagine. La domanda globale di petrolio, almeno nel prossimo decennio, continuerà a crescere rispetto ai 101 milioni di quest’anno perché i paesi emergenti ne chiederanno sempre di più. La domanda di carbone termico, invece, è destinata a ridursi dopo il picco raggiunto nel 2024, in quanto l’energia elettrica alimentata a carbone viene sempre più sostituita dalle energie rinnovabili in Europa e negli Stati Uniti, nonostante la Cina e l’India rappresentino ancora il 70 per cento della domanda globale di carbone.
Birol, l’economista turco che dirige l’Aie, sostiene che entro questo decennio petrolio, gas e carbone raggiungeranno tutti insieme il punto più alto della curva, una sorta di allineamento dei pianeti energetici, poi comincia la discesa. Quanto sarà rapida e duratura dipende da fattori umani, contesti storico-politici, condizioni naturali, ma la curva punterà verso il basso. L’agenzia ha pubblicato un grafico multicolore che arriva fino al 2050 quando la quota delle fonti fossili sarà al 40 per cento della domanda mondiale, ma attenzione, mentre carbone e gas naturale vengono raffigurati in netta discesa, lo stesso non accade per il petrolio la cui fetta rimane pressoché la stessa. Conclusione: hanno ragione entrambi i contendenti, sia l’Opec sia l’Aiea, dipende dai punti di vista o meglio dal gioco degli interessi? La scienza passa la parola alla politica e alla guerra, perché il conflitto in Palestina e quello in Ucraina appaiono gli eventi dominanti nel breve periodo.
Il barometro diplomatico segna brutto tempo. I colloqui tra Arabia Saudita e Israele per normalizzare i loro rapporti sono stati bloccati da Riad e ciò ha un impatto anche sul mercato petrolifero. I sauditi avevano espresso la volontà di aumentare la produzione di petrolio se i prezzi del greggio fossero rimasti elevati. Ciò faceva parte di un complesso accordo, mediato dagli Stati Uniti, che prevedeva il riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita. Secondo Hakan Kaya gestore del fondo Neuberger Berman, “l’escalation del conflitto ha probabilmente ridotto le possibilità di normalizzazione a breve termine delle relazioni e potrebbe influire sui piani sauditi relativi alla produzione petrolifera, inducendo i paesi esportatori a prolungare i tagli esistenti per un periodo più lungo, il che potrebbe ridurre ulteriormente le già basse scorte globali di greggio”. Un voltafaccia è in atto anche in Iran. Ai tempi dello shah il paese produceva sei milioni di barili al giorno e puntava a raggiungere i dieci barili sauditi, oggi arriva a malapena a tre milioni. Gli Stati Uniti avevano adottato una posizione più morbida consentendo al regime degli ayatollah di avvicinarsi ai livelli precedenti il 2018. Tuttavia, il netto sostegno iraniano all’attacco di Hamas spingerà Washington a un giro di vite. Il presidente Biden è già sotto tiro, accusato di aver concesso troppo, non spira aria di appeasement nemmeno sulle forniture di petrolio. Nel breve periodo sembra scontato un surriscaldamento dei prezzi che mette in moto la girandola della speculazione, anche se finora non s’è visto nessun terremoto. Molto più difficile è prevedere gli sviluppi di qui ai prossimi mesi. Gli sceicchi e gli ayatollah hanno sempre manovrato i palestinesi come strumenti per i propri fini, ne diffidano, non li considerano arabi tanto meno iraniani (anche perché sono sunniti, non sciiti). Quindi prevarranno i propri interessi nazionali rispetto a un illusorio panislamismo buono solo come bandiera identitaria per mobilitare le masse.
La monarchia saudita in mano ormai da un decennio al principe ereditario Mohammed bin Salman Al Saud, detto in occidente MBS, deve governare un paese con 36 milioni di abitanti che vive ancora soprattutto grazie al petrolio (rappresenta il 95 per cento delle esportazioni e il 70 per cento delle entrate del governo). L’obiettivo annunciato è diversificare l’economia, ma resterà forse per sempre un petrostato, nel bene e nel male. Il ricco fondo sovrano lo scorso anno ha chiuso in perdita (11 miliardi di dollari) mentre gli investimenti diretti sono diminuiti del 59 per cento scendendo sotto gli otto miliardi di dollari. Sia chiaro, non mancano le risorse finanziarie che ammontano sempre a 650 miliardi di dollari, ma la scelta strategica è di indirizzarle soprattutto verso altri impieghi, anche fonti rinnovabili. Perché bisogna creare posti di lavoro: i tempi in cui solo gli stranieri lavoravano sono superati, anche se il paese ha il record di immigrati (filippini, indiani, pakistani), ci sono milioni e milioni di giovani nati in Arabia saudita che hanno bisogno d’impiego. Il tasso di disoccupazione, salito all’8,5 per cento, è sceso al 4,9, ma nell’insieme la strategia Vision 2030 vuole dare risposta alla spinta demografica interna. Una pressione che in Iran, dove oltre il 60 per cento della popolazione ha un’età inferiore ai trent’anni, è sfociata da tempo in conflitto aperto con la teocrazia imperante. E anche il Nobel a Narges Mohammadi accende altre fiammelle di speranza. Con 88 milioni di abitanti il paese ha un tasso di disoccupazione del 10 per cento che sale al 30 tra i giovani, una inflazione stimata dal 40 per cento, mentre il prodotto lordo s’aggira sui 470 miliardi di dollari (cinque volte meno dell’Italia) e il reddito pro capite supera di poco i 4 mila dollari. Le sanzioni americane pesano come macigni e la politica di potenza non è un diversivo efficace, al contrario diventa sempre più controproducente. Può darsi che Teheran si scagli in una offensiva militare contro Israele, sia pure per procura, ma è più probabile che faccia soprattutto propaganda.
Il conflitto avrà quasi certamente un impatto sul gas perché Israele dopo le recenti scoperte possiede vaste riserve ed è diventato un importante produttore. E’ da prevedere che le esportazioni si ridurranno per ragioni strategiche, anche se esse alimentano un buon flusso di dollari, con brutte conseguenze sull’Europa affamata di metano dopo il disincaglio dalla morsa russa. L’Egitto ha scelto di fare da mediatore, del resto i Fratelli musulmani, progenitori di Hamas, sono i grandi nemici del generale Abdel al-Sisi. Ciò da una parte spinge il governo del Cairo a non cedere, dall’altra lo induce a non sbilanciarsi a favore di Israele con il quale intrattiene relazioni diplomatiche dal 1980. Un difficile esercizio di equilibrio. In questo scenario, sembra restare ai margini la Russia impelagata nel pantano ucraino; in realtà Vladimir Putin sta giocando la sua partita anche in Medio Oriente (in Siria ha salvato Assad e ora mette il colbacco su Hamas con tanti saluti all’amico Netanyahu), ma deve fare i conti con la Turchia collocata nel bel mezzo tra Balcani e Levante. L’emiro al-Thani fa il doppio gioco, il principe Salman cammina sulle braci del patto di Abramo, Xi Jinping sta valutando come trarre dalla crisi un vantaggio di lungo periodo, intanto il “sultano Erdogan” moltiplica le parti in commedia: lui pure sostiene Hamas e danza come un derviscio tra Washington, Gerusalemme, Mosca, Berlino.
Gli Stati Uniti useranno anche la loro potenza petrolifera per riprendere le fila che Barack Obama aveva spezzato nella illusione di lasciare il Levante ai levantini? Una volta riempiti i serbatoi strategici, Washington potrebbe aumentare le esportazioni e far crollare il prezzo, i sauditi sarebbero con le spalle al muro solo che la Casa Bianca metterebbe in pericolo i conti dei petrolieri a stelle e strisce. Se Joe Biden seguisse questa tentazione, avrebbe subito contro l’intero partito repubblicano e una parte di quello democratico. Se lasciasse il pallino in mano agli arabi, senza chiedere in contropartita di non sostenere Hamas, il presidente si giocherebbe le speranze di vincere un secondo mandato. Sull’oceano del petrolio, dunque, oscilla un ponte tibetano, tutti sono costretti a percorrerlo con cautela, chiunque si sporga troppo è destinato a cadere nel vuoto. Vedremo presto chi terrà la testa sulle spalle e chi non saprà sfuggire al cupio dissolvi.