in Israele
Così si organizza il comitato dei familiari degli ostaggi di Hamas
Sono 800 le famiglie israeliane che vivono in perenne attesa di notizie dei propri cari. Il premier Benjamin Netanyahu ha incontrato e rassicurato alcuni loro rappresentanti. Una testimonianza
“Vincere la guerra senza riuscire a salvare gli ostaggi sarebbe come dire che l’operazione è stata un successo ma il paziente è morto”. Meirav Leshem Gonen affronta il dolore con la concretezza di una madre determinata a ritrovare la sua figlia di mezzo, “il collante tra le due grandi e le due piccole”. Stava ballando, Romi Gonen, 23 anni, in mezzo ai campi fuori dal kibbutz Re’im per salutare l’alba di sabato 7 ottobre. Assieme a lei, migliaia di altri ragazzi e ragazze arrivati al sud per il Nova Festival. Improvvisamente si è trovata sotto tiro dei razzi provenienti da Gaza, appena pochi chilometri da lì. E poi incastrata nella fuga dall’assalto armato di Hamas. Meirav sa tutto di quelle ore di terrore. Ha appreso ogni dettaglio dalla voce impaurita della figlia al telefono. Che, in preda al panico, le chiedeva cosa fare. “Ma io non avevo il quadro della situazione, non potevo nemmeno immaginare cosa stesse accadendo. Anche quando mi ha chiamato per l’ultima volta, per dirmi che avevano sparato contro la sua auto. Che l’amica che era con lei non rispondeva più. Che l’altro amico era ferito. E che lei non poteva soccorrerlo perché era ferita anche lei”. Poi il silenzio. Infine un segnale della cella telefonica collegata dentro la Striscia di Gaza. Da allora Meirav vive in perenne attesa.
Sono 800 le famiglie israeliane che condividono storie simili: si sono costituite in un comitato, assistite da un team di legali e di negoziatori. “Stiamo lavorando su diversi canali”, spiega al Foglio Ya’akov Peri, ex capo dello Shin Bet (i servizi di sicurezza interni) e negoziatore: “Quello del governo dipende direttamente dall’ufficio del primo ministro ed è coordinato da Gal Hirsh con la sua squadra. Poi ci siamo noi, al fianco delle famiglie degli ostaggi. Il nostro compito è anche creare un coinvolgimento internazionale sui fronti della diplomazia, dei media e delle persone comuni”.
Sabato il capo del Consiglio di sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi aveva affermato che Israele non avrebbe negoziato con un nemico che ha promesso di “spazzare via dalla faccia della terra” il paese. Subito dopo il comitato aveva reagito con una dichiarazione in cui le famiglie criticavano il governo per aver, in sostanza, affermato l’intenzione di abbandonare i cittadini rapiti.
Lo strappo è stato ricucito domenica dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha incontrato faccia a faccia alcuni rappresentanti del comitato, tra cui Meirav Leshem Gonen, in una base dell’esercito a Ramla. Il premier ha chiarito che riportare a casa gli ostaggi è un obiettivo prioritario del governo, tanto quanto estirpare da Gaza il problema Hamas. “Netanyahu ce l’ha assicurato. Una cosa non esclude l’altra”, ha confermato Meirav Leshem Gonen al Foglio. “La cosa più importante è restare uniti. Restiamo con i piedi per terra. Nessuno sostituirà il governo adesso”, ragiona la donna. “Ok c’è la guerra, ok stiamo combattendo. Ma il primo passo è ottenere un canale umanitario attraverso la Croce Rossa”. Proprio alla Cri il comitato ha inviato una nota sui casi più gravi e urgenti tra chi si ritiene possa trovarsi in ostaggio e la cui vita dipende da farmaci salvavita e terapie. Ci sono persone con il morbo di Parkinson o con la sclerosi multipla. Altri feriti gravi. E poi neonati, bambini autistici e anziani.
È questo il compito che la squadra di negoziatori del comitato delle famiglie intende affrontare per primo. “Ma ci mancano ancora molte informazioni”, spiega Peri: “Sappiamo che ci sono tra i 130 e i 150 ostaggi, se non di più. Quello che non sappiamo è chi è vivo e chi morto. Perché Hamas non ha ancora reso nota una lista delle persone che stanno trattenendo. Ci sono soldati ma per la maggior parte parliamo di civili”. La differenza tra militari e civili su Israele non ha un impatto a livello di negoziazione. “Per noi sono tutti cittadini israeliani e il nostro obiettivo è portarli a casa”, dice Peri: “Chi fa differenze è Hamas. Per loro la vita dei miliziani di alto rango vale di più”. Il rischio è che i civili israeliani siano ritenuti dai negoziatori della fazione palestinese sacrificabili per primi. “E’ una cosa – dice Peri – che dobbiamo tenere in considerazione.”