l'intervista
Il tramonto della tv. Il 2024 potrebbe segnare in America, e a ruota anche da noi, l'inizio della fine
“Il business televisivo è in un momento di transizione drammatico: è un’industria che non si riprenderà”. Parla Michael Wolff, che di media e politica se ne intende
Ogni quattro anni, gli appuntamenti elettorali con le presidenziali americane sono sempre momenti in cui decolla un nuovo trend della comunicazione. E’ un fenomeno che si ripete almeno dal 1960, quando la sfida tra John F. Kennedy e Richard Nixon, con i loro dibattiti teletrasmessi per la prima volta in tutta l’America, segnò il decollo della televisione come strumento principe della campagna elettorale. In mezzo, solo per restare agli ultimi anni, ci sono stati l’emergere per la prima volta dei social media (2008, Obama-McCain), l’esplosione della mobilità e degli smartphone (2012, Obama-Romney), il boom dei big data e gli interrogativi sulla privacy (2016, Trump-Clinton) e il dilagare degli eventi digitali “a distanza” e delle videoconferenze durante la pandemia (2020, Biden-Trump). La corsa alla Casa Bianca, con la sua enorme copertura mediatica e le centinaia di milioni investiti in comunicazione, è un acceleratore di innovazione che non ha eguali al mondo. Il 2024 è di nuovo un anno elettorale e l’aspettativa diffusa è che segni, nel bene e nel male, il successo definitivo dell’intelligenza artificiale. C’è molta attesa per verificare se ci sarà un’ondata di contenuti realizzati con l’AI generativa e se tra questi esploderanno in particolare quelli “fake” visivi. Negli ultimi mesi sono già circolate molte immagini di Donald Trump in manette o inseguito dai poliziotti che sembravano vere, ma erano ovviamente frutto del livello di sofisticazione raggiunto da programmi come Dall-E della società californiana OpenAI (la stessa che ha lanciato ChatGPT).
Sicuramente i social e l’intelligenza artificiale avranno il loro palcoscenico nella corsa alla Casa Bianca che sta per aprirsi (il 15 gennaio si vota in Iowa per scegliere il candidato repubblicano, prima tappa del percorso che si concluderà il 5 novembre), ma la sorpresa più grossa potrebbe venire ancora una volta dal medium che domina tutto dalla metà del Ventesimo secolo: la tv. Non perché abbia chissà quali innovazioni da introdurre. Al contrario: il 2024 potrebbe segnare in America – e a ruota anche da noi – l’inizio della fine della tv. “Il business televisivo è in un momento di transizione drammatico: è un’industria che non si riprenderà”, spiega al Foglio Michael Wolff, che di media e politica se ne intende. Wolff è diventato celebre a livello mondiale qualche anno fa quando uscì il suo libro “Fuoco e Furia”, che svelò il caos che regnava alla Casa Bianca dopo il primo anno di presidenza di Donald Trump. L’allora presidente gli aveva dato pieno accesso alla West Wing e Wolff aveva trascorso mesi nelle stanze del potere, parlando con Trump e con ciascuno dei suoi collaboratori. Ognuno dei quali si era lasciato andare a considerazioni e racconti in libertà che, raccolti insieme in un libro, crearono la narrazione di una situazione devastante e fuori controllo a Washington. Seguirono smentite, accuse di aver scritto inesattezze o falsità, minacce e sfuriate del presidente sull’allora Twitter (oggi X). Ma tutti hanno continuato a parlare con Wolff, che diede seguito con altri due libri al racconto di un’amministrazione che era tenuta in ostaggio dei colpi di testa di Trump e della sua ossessione per i media e la tv, in particolare per il network che aveva creato il suo successo: Fox News.
Adesso Wolff è tornato alla carica con un nuovo libro dedicato proprio alla tv di Rupert Murdoch e alla figura del suo fondatore, l’uomo che suo malgrado ha creato il successo di Trump pur disprezzandolo profondamente. E di nuovo in tanti, in modo riservato, hanno raccontato tutto a Wolff, utilizzando lo scrittore e giornalista spesso come strumento per cercare di giocare le loro personali partite di potere, dentro Fox News e più in generale nel mondo repubblicano e dei conservatori Usa. Senza considerare, ancora una volta, che si tratta di un autore che gioca per sé stesso e non fa sconti a nessuno.
Ne è nato così “The Fall”, appena uscito negli Stati Uniti e già protagonista di un terremoto nel mondo dei media. Il sottotitolo del libro dice tutto: “La fine di Fox News e della dinastia Murdoch”. Ma lo scenario che descrive va oltre e prefigura la fine non solo del network che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni della politica americana, ma anche di tutto il sistema complessivo della televisione, visto sull’orlo del baratro e vicino a un epilogo provocato da una rivoluzione digitale che i media tradizionali non sono mai riusciti a cavalcare e che ora rischia di farli finire in bancarotta. Una prospettiva che, se si avverasse, avrebbe conseguenze planetarie: se entrasse davvero in crisi in America il mondo di Fox, Cnn, Nbc, Abc e Cbs, le conseguenze come sempre si avvertirebbero anche da questa parte dell’Atlantico e nel mondo televisivo di casa nostra. Per questo “The Fall” non è solo una sorta di necrologio per il mondo di Murdoch, ma un avvertimento a tutto il sistema televisivo nato nel Ventesimo secolo e ancora ancorato a modalità di produzione e organizzazioni del lavoro pensate in un’era dominata dall’approccio broadcast, che ora appaiono superate nell’attuale mondo sharing e nella stagione delle piattaforme digitali come Netflix, PrimeVideo o Disney+.
Un primo effetto del racconto fatto da Wolff da dietro le quinte di Fox News si è già visto. Non appena sono circolate le prime anticipazioni del libro e ancor prima che qualcuno lo avesse letto, Rupert Murdoch ha annunciato che a 92 anni lascia la guida del suo impero televisivo, affidandolo al figlio Lachlan. Non si può non cominciare dal chiedere a Wolff se sia lui il responsabile della scelta. “Sì, direi proprio che è colpa mia”, spiega parlando dalla sua casa a Manhattan, in una pausa del tour di presentazione del libro. “Ho scritto un intero volume aspettandomi che succedesse qualcosa di simile. È il segno che la fine è in arrivo e adesso è formalmente cominciata. Ho saputo da persone all’interno di Fox che il libro è stato visto da Murdoch come un autobus che gli stava arrivando addosso. E ne capisco i motivi. Quella che faccio è una fotografia molto chiara dei problemi che ci sono quando a 92 anni stai ancora cercando di guidare grandi società. E’ una dura realtà e io ho reso ancora più difficile evitare di farci i conti. Anche Rupert Murdoch ha una data di scadenza e l’ha abbondantemente superata”. Questo non significa però che il magnate dei media sia realmente e del tutto fuori dai giochi, avverte Wolff. “Non penso proprio che sparirà, continua a detenere il cento per cento del potere e del controllo. È lui che nomina il consiglio d’amministrazione e l’amministratore delegato. È sempre stato un duro e non mollerà, come dimostrano anche le parole che ha scelto per il suo annuncio pubblico: ha detto che faceva ‘un passo indietro’, non che si faceva definitivamente da parte”.
Per Murdoch, come per Trump, Michael Wolff è da anni una spina nel fianco. Ma se l’ex presidente è in grado di resistere ad attacchi di ogni genere (e a quattro processi penali e una causa civile, contemporaneamente), il magnate australiano è rimasto nel corso degli anni molto più spiazzato dagli “autobus” che lo scrittore gli ha spedito addosso. Nel 2008 Murdoch, al picco della sua carriera dopo aver acquistato il Wall Street Journal, pensò che fosse una buona idea affidare al giornalista newyorchese, già celebre all’epoca come esperto del mondo dei media, il racconto della sua vita. Gli dedicò ore ed ore di interviste, gli aprì le porte di tutte le sue case, lo portò in Australia a intervistare l’anziana madre, fece parlare con Wolff figli, nuore e nipoti, oltre ai suoi principali collaboratori. Il risultato fu l’uscita di “The man who owns the news”, una biografia che fece inorridire Murdoch perché ne emergeva un ritratto tutt’altro che positivo. Il risultato fu che il magnate australiano chiuse le porte in faccia a Wolff, che nello stesso tempo però fu accolto da altri interlocutori anche all’interno del mondo Fox che avevano rapporti difficili con il capo azienda. Primo tra tutti Roger Ailes, l’uomo che aveva costruito Fox News per conto di Murdoch e l’aveva guidata per anni, fino al punto da diventare troppo potente e una minaccia per l’imprenditore. Ailes cominciò a frequentare Wolff e ad aprirgli la strada con i suoi contatti nel mondo dei repubblicani e alla fine con lo stesso Donald Trump.
Ailes è oggi il nome che non si può pronunciare in casa Fox News, il Voldemort della rete televisiva conservatrice. I figli di Murdoch, Lachlan e James, da sempre in lotta tra loro per conquistare il ruolo di erede principale della dinastia, si trovarono alleati nel fare la guerra ad Ailes ed è probabile che ci sia stato anche il loro “incoraggiamento” dietro alle denunce di molestie sessuali che alcune anchor della tv lanciarono contro lo stesso Ailes nel 2016, segnando la fine del suo dominio e la cacciata dal network un anno prima della sua morte. Non sorprende che la saga dei Murdoch sia stata l’ispirazione per la serie televisiva “Succession”. “Dai tempi della mia biografia”, spiega Wolff, “ciò che è davvero cambiato è che Murdoch aveva 78 anni quando fu pubblicato il libro e ora ne ha 92. I guai non si possono più nascondere. Ha avuto problemi con la sua famiglia, con le sue società, con tutto il business del mondo dei quotidiani che era quello che davvero amava e su cui era stato fondato il suo impero, che è entrato in una crisi terminale. I suoi giornali, che facevano un sacco di soldi, adesso li perdono e sono moribondi”.
Ma il cambiamento più grande, rispetto al 2008, è stato ciò che è diventata Fox News. “Quando è arrivata l’amministrazione Obama, il network si è trasformato nella singola, maggiore potenza che esiste nella politica americana. Ed è una forza interamente dedicata a spingere un pensiero di destra. In questo rappresenta una specie di mostro di Frankenstein, perché è una creatura di Murdoch che propone un pensiero che non gli appartiene. Lui non è di estrema destra, né tantomeno populista. Gli è toccato in sorte veder diventare la sua Fox News la ragione principale, si potrebbe dire, per cui Donald Trump ha vinto le elezioni nel 2016. E Murdoch ha sempre detestato Trump. Quindi occorre immaginare quest’uomo che vede crescere una tv che non la pensa come lui, ma come Ailes, che fa eleggere presidente una persona che lui definiva ‘un fottuto idiota’ e che per di più porta la famiglia Murdoch a sfasciarsi e i figli a farsi la guerra. Il sogno di Rupert Murdoch, al di là dei soldi, era quello di creare una dinastia che durasse nel tempo. Ed è tutto crollato, non succederà. E questo per lui è durissimo da accettare”. Wolff non ha certo reso le cose più facili con il suo libro. Oltre ad aver dato voce a decine di fonti spesso anonime che raccontano i panni sporchi della “succession” di famiglia, ha deciso di aprire “The Fall” con un artificio letterario un po’ macabro. Ha finto di aver recuperato e pubblicato un “coccodrillo” di Rupert Murdoch, come si chiamano in gergo giornalistico quegli articoli-necrologio che le redazioni tengono pronti da pubblicare per la morte di personaggi celebri. E ha dato così al magnate la possibilità di leggere, da vivo, come potrebbe venir ricordato una volta che se ne sarà andato. Non è una lettura edificante e occupa tutto il primo capitolo del libro.
Il “coccodrillo” è l’occasione per ripercorrere la vita di un grande mogul dei media, un personaggio complesso paragonabile solo ai magnati della stampa del passato come William Randolph Hearst, l’imprenditore che ispirò “Citizen Kane” a Orson Welles. Riletta in formato necrologio, quella di Murdoch è un’esistenza sorprendente, cominciata in Australia e arrivata a determinare l’elezione (e forse la rielezione) di un presidente degli Stati Uniti, condizionando nel frattempo per qualche decennio anche la politica britannica e australiana. Erede di una famiglia nobile con origini scozzesi, Rupert si fece le ossa nei giornali australiani controllati dal padre, prima di tentare il salto nel Regno Unito con l’acquisto dei tabloid News of the World e Sun. Dopo averli trasformati entrambi in giornali scandalistici con un’enorme tiratura e aver acquistato un gioiello della stampa britannica, l’autorevole Times di Londra, passò a dare l’assalto al mercato americano, comprando tra l’altro il New York Post. I suoi giornali hanno fatto emergere e cadere una serie di primi ministri in Australia, hanno sostenuto Margaret Thatcher in Gran Bretagna e in seguito permesso a Tony Blair di vincere anche grazie alla scelta del Sun di sostenerlo, lasciando per una volta i Tories. A New York, nel frattempo, Murdoch faceva le prime irruzioni nella politica americana usando il suo Post per far eleggere sindaco della città Ed Koch.
Poi, nel 1985, il grande salto nel mondo dell’entertainment: l’acquisto a Hollywood del gigante 20th Century Fox, che scatenò la febbre delle fusioni nel mondo dei media americani, in preda al panico per l’arrivo dello “straniero”. Fu il momento in cui la celebre rivista Time si fuse con la Warner, Viacom comprò la Paramount e la Cbs, Disney si unì alla Abc. E Murdoch, non particolarmente interessato al mondo del cinema, pensò di lanciarsi nella televisione, creando il network Fox per sfidare i colossi Abc, Nbc e Cbs. Non contento, acquistò due gigantesche case editrici, l’americana Harper e la britannica Collins, e le fuse insieme, nello stesso momento in cui entrava nel mondo televisivo londinese comprando l’emittente satellitare BSkyB. Le cose gli andarono bene fino alla crisi economica degli anni Novanta, quando cominciò a perdere tonnellate di soldi e fu costretto a concentrarsi sulla casa cinematografica, che teneva in piedi tutto l’impero. Uscito dalla crisi e ancora appassionato di giornalismo, decise che era l’ora di entrare nel mondo delle news televisive in America e diede incarico ad Ailes di creare un network d’informazione 24 ore su 24 che potesse sfidare l’allora dominante Cnn. Fox News fu lanciata nel 1996 e crebbe in fretta, facendosi notare in particolare durante l’attacco all’America dell’11 settembre 2001 e per la sua intensa copertura delle guerre in Afghanistan e Iraq.
Nel 2007, all’apice del successo, arrivò l’acquisto del gruppo Dow Jones e del suo quotidiano, il Wall Street Journal, che trasformarono la corazzata di Murdoch, News Corp, in una potenza mondiale dei media. Rupert a quel punto pensava ancora a creare la dinastia del futuro e mise Lachlan al suo fianco alla guida dell’impero a New York e il più giovane James ad occuparsi della trasformazione digitale di News Corp e dei progetti del futuro. Restò fuori invece la figlia Elisabeth, infuriata per il matrimonio del padre con una giovane stagista cinese, Wendi Deng. Le nozze e i divorzi, insieme alla “succession” dinastica, hanno segnato la storia della famiglia: Murdoch ha collezionato quattro matrimoni falliti e una serie di fidanzamenti di breve durata che proseguono ancora oggi. Poi arrivarono i guai, con lo scandalo delle intercettazioni britanniche che creò enorme imbarazzo ai Murdoch, fece saltare l’acquisto quasi concluso del network Sky e segnò la fine di News of the World. Arrivò la separazione forzata dell’impero giornalistico e televisivo da quello cinematografico, seguita dalla vendita di 20th Century Fox alla Disney e dal ridimensionamento dei due figli. “Murdoch ha venduto buona parte del suo colosso”, spiega Wolff, “in parte perché era finito il sogno della dinastia. I figli si erano rivelati incapaci di lavorare insieme. E allora era passato all’incasso, aveva liquidato quello che poteva ed era in gran parte uscito dal business dell’informazione”.
Gli restava però Fox News, cresciuta negli anni di Obama ed esplosa con Trump. E i Murdoch si sono trovati così costretti a puntare tutto sul network di cui non condividevano le idee, sul presidente che odiavano e sui potenti anchormen che dominavano il prime-time televisivo (i giornali, a questo punto, erano solo una voce di perdite costanti). Il numero uno era Bill O’Reilly, poi caduto per un altro scandalo sessuale, seguito da Sean Hannity e infine da un giovane conduttore arrivato dalla Cnn che sembrava una voce pacata e ragionevole, uno su cui Murdoch puntava molto: Tucker Carlson. Ma Carlson ben presto è diventato più potente della televisione che lo ospitava. È diventato il vero interprete e il punto di riferimento del movimento MAGA (Make America Great Again) e in definitiva il personaggio politico di destra più potente d’America dopo il presidente. Carlson è stato la voce di Trump negli anni della presidenza e anche dopo, è stato il re degli ascolti e il protagonista delle prese di posizione più controverse del network tv, dalle battaglie contro le mascherine e i vaccini per il Covid e ai tentativi di giustificare l’invasione dell’Ucraina e di tenere in buona luce Putin. Ma nella trincea degli studi sulla Sesta Avenue di Manhattan, dove si susseguono le vicende di Fox News e le battaglie interne per il potere, Carlson è diventato l’ultima vittima sacrificale ed è stato brutalmente cacciato lo scorso aprile senza preavviso e senza una motivazione ufficiale. Le fonti interne hanno indicato come motivo l’epilogo della causa giudiziaria contro la società Dominion, produttrice di macchine elettorali utilizzate nei seggi americani. Trump – con il forte megafono di Carlson – nel 2020 aveva fatto circolare la teoria cospirativa secondo la quale le macchine di Dominion erano state manipolate per far vincere Joe Biden. Una delle tante balle costruite dalla Casa Bianca trumpiana, con la consulenza di Rudy Giuliani, per alimentare la narrazione di una “vittoria scippata” che Trump continua ancora oggi a promuovere, nonostante gli sia già costata un paio di incriminazioni.
Dominion ha fatto causa a Fox News, l’ha portata a un passo da un processo che sarebbe stato reputazionalmente devastante e poi ha raggiunto un accordo per un risarcimento danni enorme, pari a 787 milioni di dollari. E Carlson, che aveva spinto molto la storia della manipolazione, è stato fatto fuori subito dopo l’accordo tra le parti. “La ragione specifica è stato il caso Dominion”, racconta Wolff, che nel libro ha ricostruito tutta la vicenda nei dettagli, intervistando più volte lo stesso Carlson. “Ma più in generale era diventato un personaggio difficile per Murdoch. Tucker, per dire, è appassionatamente contro la guerra in Ucraina, mentre Rupert la pensa all’opposto. Per Murdoch è stata una decisione difficile perché in realtà gli è sempre piaciuto molto Carlson. La vicenda Dominion gli ha dato però la possibilità di utilizzare un caso giudiziario per liberarsi di un personaggio scomodo, ma potente e di grande successo”. Carlson si è trasferito su X, con Elon Musk che gli ha spalancato le porte, e ha cominciato a costruire una sorta di televisione su piattaforma social, riportando anche Trump sull’ex Twitter e dandogli uno spazio che si è invece molto ridimensionato per lui su Fox News. E qui si aprono due scenari interessanti. Perché l’esperimento di Carlson su X è l’ennesimo segno di come la tv tradizionale possa essere sostituita dalle piattaforme digitali, accelerando la crisi che Wolff ritiene inevitabile. Nello stesso tempo, l’anchorman si sta ritagliando un ruolo politico importante nell’orbita di Trump, che potrebbe portarlo lontano: per esempio, a diventare il candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti. “Il futuro di Tucker è un tema affascinante”, commenta Wolff. “Riuscirà a restare il Tucker Carlson che conosciamo, anche senza avere alle spalle Fox News? Questo è il primo interrogativo. Il secondo è: ha senz’altro quello che serve per trasformare il suo incredibile seguito in popolarità politica, ma lo vuole davvero? Sicuramente la cosa gli è passata per la mente, inclusa la possibilità di correre per la presidenza, come scrivo nel libro. Ma è un grosso salto. A Tucker piace fare televisione e ha una vita tutto sommato tranquilla con la sua famiglia: è pronto a sacrificarla per una carriera politica? Quel che è certo è che poche persone in America sono riuscite ad articolare in modo coerente il pensiero del mondo MAGA trumpiano e Tucker Carlson è una di queste”.
Sullo scenario politico repubblicano in cui potrebbe inserirsi Carlson, Wolff ha le idee chiare: la nomination andrà a Trump, che sfiderà di nuovo Biden. “L’unica alternativa era Ron DeSantis, ma sarà l’ennesimo caso di un governatore che ha provato a correre per la presidenza e non ce l’ha fatta”.
Il che apre la porta alla possibilità concreta che l’America vada incontro a una seconda amministrazione Trump: come se la immagina chi, come Wolff, ha studiato la prima molto da vicino? “È sicuramente una circostanza preoccupante, che va oltre ogni capacità di immaginazione. Donald Trump sfida, da ogni punto di vista, la logica delle cose. Quindi è quasi impossibile anche cominciare a immaginare cosa succederà. La sua è sempre stata una storia che va raccontata mentre accade, in diretta, perché non c’è alcuna programmazione”. Per Wolff si prefigura, in ogni caso, la possibilità di tornare a occuparsi ancora una volta di Trump e lo scrittore riconosce che è un’impresa molto diversa di quella di dedicarsi al magnate di Fox News. “Murdoch è una persona con cui è molto difficile parlare, è spesso privo d’espressione, è taciturno, è uno che ascolta più di quanto parli. Trump è l’assoluto opposto, non sta mai zitto. Ma io trovo entrambi affascinanti, due uomini incredibilmente interessanti, da un certo punto di vista entrambi riprovevoli ma con storie personali che, per uno scrittore, sono straordinarie”. Comunque vadano le cose, il 2024 offrirà sfide importanti ai media che dovranno raccontare una campagna elettorale fuori dal comune, con un candidato (Trump) che è già stato presidente e che rischia di finire in prigione e l’altro (Biden) che combatte con l’età e la fragilità. In un’altra epoca, sarebbe stata un’opportunità entusiasmante per i network tv, ma ora sono tutti in affanno. La Cnn passa da una crisi interna all’altra, Fox News è un laboratorio, i network storici sono tutti a corto di raccolta pubblicitaria e il mondo digitale incalza, con X che si propone come piattaforma di racconto della politica e gli altri social che sono molto più attraenti per i candidati di quanto non lo siano le televisioni. “La tv via cavo americana è ancora potente”, riflette Wolff, “ma è un’industria che si sta progressivamente restringendo e non tornerà più dove era un tempo. Tutto sta cambiando e nessuno sa dove ci porterà questo nuovo scenario: se lo sapessi, sarei il prossimo magnate del mondo dei media. Quel che è certo è che il mondo digitale è ormai in grado di competere alla pari con un mondo, quello dei network televisivi, che era una sorta di monopolio e ora non lo è più”.
Fox News potrebbe essere la prima ad entrare veramente in crisi e a trascinare con sé l’intero mercato televisivo, anche europeo. Molto dipenderà dalle sorti della dinastia dei Murdoch, che dal libro di Wolff emerge come una realtà all’epilogo, ma che ovviamente potrebbe smentire i catastrofisti. “Un esempio di cosa è oggi la dinastia”, commenta l’autore, “è la modalità con cui si muove Lachlan. Tre anni fa ha riportato tutta la famiglia in Australia e adesso gestisce tutte le attività americane da Sidney, che non è certo la migliore scelta per un leader”. Con Rupert dimissionario, Lachlan in esilio in Australia e James che cerca di creare alternative e di spostare Fox News più al centro, se non addirittura verso i democratici, ci sono tutte le condizioni per il caos. “Anche perché”, commenta Wolff, “Donald Trump adesso è in guerra con loro. È per questo che la vera novità che potrebbe emergere dalla campagna elettorale 2024 è la fine di uno dei maggiori network televisivi mondiali: Fox News”. Wolff continuerà a godersi lo spettacolo seduto al suo tavolo riservato da “Michael’s New York”, il ristorante nel cuore di Manhattan, tra la Trump Tower e il MoMA, dove da oltre vent’anni riceve ospiti a pranzo che vengono a raccontargli riservatamente i retroscena del media business americano. Sa che la dinastia dei Murdoch reagirà duramente al suo ultimo libro, come è già accaduto con quello precedente, ma l’ha messo in conto, perché è una conseguenza del suo approccio. “Gran parte dei giornalisti”, è la sua filosofia, “raccontano la realtà pubblica. Io cerco sempre di raccontare come sono queste persone in privato, cosa avviene dietro le quinte. Lo posso fare perché faccio questo lavoro da tempo, conosco le persone che conoscono anche loro e ho accesso al loro mondo. Questo li fa diventare matti, perché sono dei maniaci del controllo e non tollerano che qualcuno racconti una storia che esce dagli schemi della loro narrazione. E si arrabbiano davvero. Tanto”.
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