Senza Speaker
Da 16 giorni il congresso americano è sotto assedio di Trump
Dopo la destituzione di McCarthy e il ritiro di Scalise, oggi si vota per la terza volta il candidato repubblicano Jordan. La sua elezione non è scontata ed è l'emblema di un partito diviso e confuso
La camera dei rappresentanti è senza uno speaker da sedici giorni, un problema in assoluto ma ancora di più dopo il terribile attacco di Hamas, in cui ci sarebbe bisogno dell’approvazione dei pacchetti di aiuti per Israele. L’assenza di uno speaker è anche un sintomo, di un partito che è riuscito a ottenere una maggioranza risicata a novembre scorso, ma che non riesce a governare, un partito diviso e confuso, dove l’ombra lunga di Donald J Trump continua a scardinare duecento anni di meccanismi parlamentari. Kevin McCarthy dopo una storica e imbarazzante elezione durata quindici votazioni è rimasto col martelletto in mano solo nove mesi, ed è stato poi cacciato il 3 ottobre dalla gang del deputato Matt Gaetz e da altri trumpiani del Freedom Caucus, il gruppo di populisti dell’Alt-right al congresso. La colpa: aver trovato un accordo con i democratici. La bipartisanship non è accettata nelle fila della destra dura. E così i deputati del GoP si sono messi all’opera per trovare un sostituto spostandosi più a destra per pacificare i bucanieri. La scorsa settimana si sono riuniti tutti a porte chiuse per votare tra due candidati: Steve Scalise – destra del partito – e Jim Jordan – ancora più a destra, uomo di Trump a Capitol Hill, tra i fondatori del Freedom Caucus. Il voto a porte chiuse ha incoronato Scalise (113 a 99), ma una volta arrivati in aula molti supporter di Jordan si sono rifiutati di votare il nome scelto dalla maggioranza del partito. E così, dopo il ritiro di Scalise vista l’opposizione interna, è stato scelto Jordan, secondo diventato primo, grande propagatore delle teorie del complotto sulle elezioni rubate, visto da molti come uno dei responsabili del clima che ha portato all’attacco del 6 gennaio. Jordan è anche una delle voci più impetuose che si oppone all’invio di armi all’Ucraina. Martedì, mandato alla prova del voto davanti a tutta la camera, Jordan non ha raggiunto però i necessari 217 voti, con venti deputati del suo partito che per motivi diversi si sono opposti alla sua elezione. Se prima a fare resistenza era la destra estrema, ora sono i moderati che hanno paura delle sue posizioni – nel presentarlo la presidente della Conferenza dei deputati repubblicani, la trumpiana Elise Stefanik, lo ha definito un “guerriero dell’America First”. E poi alcuni uomini di Scalise non lo perdonano per aver ignorato le regole della democrazia interna al partito. Altri, che rappresentano distretti dove Joe Biden ha vinto nel 2020, non vogliono perdere il supporto degli elettori moderati. Mercoledì alla seconda votazione lo scarto è aumentato ancora, e adesso le possibilità che Jordan venga eletto diminuiscono ogni giorno che passa. Ci proverà di nuovo oggi, ma molti stanno già pensando a soluzioni alternative.
Una viene dai dem: cambiare le regole permettendo allo speaker pro tempore, il più moderato Patrick McHenry, di far ripartire i lavori della camera posticipando il voto ed evitare di arrivare al 17 novembre sull’orlo – di nuovo – di uno shutdown governativo. E trovare così anche il modo di inviare aiuti a Gerusalemme e a Kyiv, come richiesto dalla Casa Bianca, che invierà alla camera una proposta di un pacchetto da 100 miliardi entro la fine della settimana, in cui sono incluse anche spese interne. Il partito democratico si è dimostrato compatto. Tutti hanno urlato a gran voce in aula il nome di Hakeem Jeffries, che mercoledì ha definito Jordan come “l’emblema dell’estremismo MAGA e di pericolose teorie del complotto”, chiedendo ai colleghi di finirla con una “guerra civile repubblicana” e trovando un accordo bipartisan per andare avanti. Basterebbe che una manciata di repubblicani si accordasse con i dem per mettere una toppa temporanea, ma efficace, a questo stallo. Alcuni deputati iniziano a sentire la pressione del voto del 2024, sono spaventati dai sondaggi che dicono che molti americani non si fidano di un partito che non è in grado di eleggere un leader, e quindi dicono: sbrighiamoci. Ma si sa già che a una parte del GoP pochi nomi vanno bene (per un momento si è parlato anche di Trump stesso, in quanto lo speaker non deve necessariamente essere un deputato). Vogliono uno di loro, o niente.
Il trumpismo è forte a Capitol Hill, è una minoranza che non transige, non fa sconti a nessuno e non fa compromessi, e che se non ottiene quello che vuole blocca l’organo legislativo. Una disfunzionalità pericolosa che mostra gli effetti del populismo quando si arriva nelle stanze del potere, una paralisi che crea solo danni. I trumpiani, pochi ma agguerriti, stanno tenendo in ostaggio da troppo tempo la camera e questo non è solo un problema interno, ma per gli equilibri dell’occidente, per gli alleati degli Stati Uniti che hanno bisogno di aiuto e che, tra invasioni russe e attacchi terroristici, non possono certo aspettare i capricci dell’alt-right e dei deputati dell’Ohio fedeli a Trump.