generazione ucraina
Ecco il nuovo ceto medio globale che sfida gli autoritarismi
"Se c'è qualcuno che non ha capito la storia dell'Ucraina, quel qualcuno è Putin". Così lo storico Yaroslav Hrytsak, in un'intervista tra storia, guerra e filosofia
Se gli chiedi qual è il suo orientamento ideologico si ferma un istante, solleva lo sguardo, sorride. “Citando Kolakowski, potrei definirmi un liberale-socialista-conservatore. Che dice, è sufficiente?”. Il fatto con Yaroslav Hrytsak non è solo il rifiuto programmatico di ogni gravitas. È che gli leggi fin troppo bene nel volto quello che pensa, quello che sta per dire, quello che lo entusiasma. Sessantatré anni, intellettuale che ha legato il suo pensiero al concetto di Ucraina globale, Hrytsak assomiglia molto, biograficamente e anche fisicamente, all’oggetto dei suoi studi: così intensamente ucraino, nella statura imponente e nello humor spavaldo, così iperconnesso e in fondo cosmopolita. Per dire, lo incontriamo una volta nella sua città, Lviv, un’altra in Italia, tra le Dolomiti, all’indomani della pubblicazione col Mulino del suo libro di maggior successo, “Storia dell’Ucraina”: ma sta per andare a Krasnogruda, confine polacco-lituano, nel maniero che fu della famiglia di Czeslaw Milosz, e lo fa per una conversazione pubblica con il suo amico e collega Timothy Snyder, in memoria del grande Tony Judt. Pochi giorni fa era a Milano per parlare del suo libro, e tutto questo mentre Hrytsak, che è anche membro della supervisory board dello Harvard Ukrainian Research Institute, continua a vivere e insegnare a Lviv, all’Università Ivan Franko, e schivando le bombe russe, va a Kyiv ai convegni del Pen Ukraine: grace under fire.
Tutto il suo libro è un grande tentativo di dimostrare come le vicende interne del suo paese, ben prima dell’invasione su vasta scala da parte dei russi, ben prima dell’indipendenza e del dominio sovietico, prima ancora dello zarismo, della confederazione polacco-lituana, insomma realmente fin dall’inizio, siano state uno snodo globale, un tassello strategico degli equilibri tra i popoli e le nazioni sulla porta d’Europa. “Il mio amico Snyder, in un discorso al Bundestag, ha detto che la guerra tra Hitler e Stalin è stata in primo luogo una guerra per l’Ucraina. E questo non perché gli ucraini fossero particolarmente buoni o cattivi, ma semplicemente perché il territorio ucraino è strategico, perché chi vince in Ucraina, ieri come oggi, ha buone chance di avere il controllo su tutta l’Europa orientale, e di conseguenza sull’Europa tout court. E non è solo la questione delle risorse naturali, la terra nera, il grano come arma, cose che vediamo perfettamente in questi mesi. Ma proprio che ora come a metà Novecento quello che succede in Ucraina determina le sorti di tutta l’Europa. Ed essendo l’Europa ancora oggi, nonostante tutto, abbastanza fondamentale per il mondo, quello che succede in Ucraina riguarda tutto il mondo. Mi creda”, e sorride di nuovo, “non siamo contenti di questo, preferiremmo essere la Repubblica ceca o l’Italia, ma ahimè, la geografia ha voluto che andasse così”.
Qui si avrebbe la tentazione di aprire un dibattito sulla famosa Italia “portaerei nel Mediterraneo”, e cioè su come gli italiani coltivano le proprie residue ambizioni di centralità geopolitica, ma è decisamente più interessante chiedere a Hrytsak del suo paese, della sua battaglia secolare, dei grandi appetiti strategici che suscitano le sconfinate praterie ucraine. Risponde prendendola abbastanza alla lontana, fine Settecento, i villaggi Potemkin, storia arcinota (e discussa, c’è chi la considera una leggenda di corte, chi la dà per vera), e ce la racconta quando gli chiediamo che ne pensa di come, pochi giorni prima della liberazione di Kherson da parte delle truppe ucraine, autunno 2022, un commando speciale russo si fosse introdotto nella cattedrale per prelevare le spoglie di Potemkin, un episodio sul quale molto ha scritto Anne Applebaum sull’Atlantic qualche mese fa. “Potemkin era comandante e amante di Caterina II. E quando lei viaggiava dal nord, da San Pietroburgo, al sud, all’Ucraina, alla volta della Crimea – e ci arrivava in nave, attraverso il più importante fiume ucraino, il Dnipro – Potemkin le avrebbe mostrato dei villaggi finti, fatti erigere alla svelta lungo le rive del fiume, per illuderla che andasse tutto bene, che quelle terre fossero piene di persone ricche e felici. Ma a prescindere dalla storia dei villaggi, perché Caterina teneva così tanto al sud, cioè all’Ucraina? Perché riteneva che sarebbe stata la chiave per sottrarre Costantinopoli ai turchi. Era parte del suo cosiddetto progetto greco, quello di ricreare l’impero bizantino, di cui essere nuova imperatrice”. Fa impressione pensare al parallelo con le visite notturne di Putin a Mariupol, ai quartieri appena costruiti per compiacere lo zar, all’eterno ripresentarsi delle stesse questioni, delle stesse ossessioni. “Uno dei liberali russi che criticano Putin”, scrive Hrytsak nel suo libro, “ha proposto questa metafora: la Russia contemporanea ricorda un grande fuoristrada nero che corre per le strade infangate; il suo parabrezza è interamente coperto dal fango e si orienta esclusivamente attraverso l’immagine nello specchietto retrovisore. La Russia putiniana avanza all’indietro, inoltrandosi nel passato”. E se nel caso russo si tratta della restaurazione della grandezza imperiale di un tempo – Hrytsak la sintetizza così: Make Russia Great Again – la strategia ucraina è esattamente l’opposto. “Nel suo passato non ci sono né una grandezza imperiale né altre ‘epoche d’oro’. Quindi l’Ucraina non ha dove tornare. La sua strategia è ‘superare il passato’, e in buona misura ci sta riuscendo. In trent’anni è diventata tutto quello che la Russia non è: un paese democratico dove i vertici al potere cambiano con regolarità e si realizzano riforme strutturali, con una società civile funzionante. Nella contrapposizione di queste due strategie – ‘avanti verso il passato’ e ‘avanti oltre il passato’ - si decide molto, se non tutto, del mondo di domani”.
Prima di ragionare sull’Ucraina di oggi, resta al professor Hrytsak di fermarsi ancora un attimo sulla storia. E di polemizzare niente meno che con Hegel, e con la sua teoria delle nazioni. Perché l’identità dell’Ucraina quale nazione indipendente e sovrana dovrebbe dipendere dalla sconfitta della profezia di un filosofo tedesco? “Perché la notizia è che noi, un po’ tutti noi, siamo in fondo ancora persone dell’Ottocento. Intendo che l’Ottocento ha creato un certo modo di ragionare che prevale, nonostante tutto quello che è avvenuto in oltre un secolo. Ed Hegel è il pensatore più influente e importante dell’Ottocento, anche più di Marx, che peraltro ne è stato fondamentalmente influenzato. Bene, nella filosofia della storia Hegel è anche colui che diffonde una tesi molto pericolosa, una tesi tossica: e cioè che meritano un posto nella storia delle nazioni propriamente dette solo quei popoli che hanno uno stato. Tutti gli altri, secondo Hegel, sono destinati a scomparire, punto. E quindi gli ucraini ma non solo, anche i bielorussi, gli armeni, gli azeri, i finlandesi... un elenco assai lungo. Secondo Hegel queste erano le leggi della storia: non ci si poteva fare niente. Adesso facciamo un salto in avanti di più di cent’anni, andiamo al 1945, alla sconfitta della Germania nazista: ai tempi c’era chi diceva che non era stato in realtà Stalin a vincere la guerra, era stato Hegel su un carro armato”. Qual è il punto? “Che molti intellettuali, e scusatemi, in Italia nel Dopoguerra soprattutto gli intellettuali comunisti e di una certa sinistra, in effetti credevano, forse ancora credono, in questa tesi. Per loro gli ucraini semplicemente proprio non dovrebbero esistere, sono una specie di errore. È per questo che ci rivoltiamo contro Hegel. Vogliamo dire che aveva torto, che la storia non ha leggi immutabili, che nella storia c’è sempre uno spazio, magari risicato, per una scelta, e che la scelta coincide con la libertà. E noi ucraini vogliamo essere liberi, quindi lottiamo contro i filosofi tedeschi dell’Ottocento, Hegel come Marx, tanto quanto lottiamo contro Putin”.
Ecco la giunzione globale, quella che nella visione di Hrytsak rende chiaro che a sostenere le ragioni dell’Ucraina non si rincorre un piccolo paese nazionalista, anzi. “È chiaro che questa non è solo una lotta per noi stessi. È proprio una lotta sul modo in cui comporremo il ritratto del nostro futuro. È una lotta per tutti coloro che non hanno una voce, per i popoli che non hanno diritti”. E se da una parte l’Ucraina non può esistere senza sfatare la visione hegeliana, viceversa proprio di essa ha un bisogno assoluto il paese che la invade. C’è nella Russia di oggi un obiettivo espansionista, di politica di potenza, alla Caterina II. E c’è qualcosa di più radicale e costitutivo nel rapporto che lega un paese all’altro. “Per la Russia l’Ucraina è molto importante, direi che è esiziale per le sue ambizioni, perché con l’Ucraina la Russia può sentirsi una specie di Stati Uniti d’America, ma senza di essa la Russia è semplicemente il Canada”. Come scrive nel libro, “uscendo dalla giurisdizione dell’Urss, nel 1991 l’Ucraina piantò l’ultimo chiodo nella bara dell’ultimo impero. Fu uno di quei momenti della storia ucraina nei quali essa di nuovo si trovò a essere strettamente connessa con quella globale. L’uscita dell’Ucraina dall’Urss pose fine alla superpotenza mondiale che era sorta dalla Prima guerra mondiale, che si era molto rafforzata dopo la Seconda e minacciava lo scoppio di una Terza. Il quarto d’ora di gloria ucraino era coinciso con il trionfo dell’Occidente”.
C’è un’immagine, secondo Hrytsak, che meglio di ogni altra riassume il volto del suo paese oggi, a trentadue anni da quella dichiarazione d’indipendenza. Ne parla mettendo a confronto la fotografia dello stato maggiore russo durante i giorni dell’inizio dell’invasione su vasta scala, e viceversa l’immagine di Zelensky e del suo entourage che gli si stringe intorno nella notte di Kyiv, il 25 febbraio 2022. “Sappiamo quanto fondamentale, per l’esito di questa guerra, sia stato che proprio in quei primi giorni Zelensky e il suo governo rimanessero in Ucraina. Quel video serviva appunto a dimostrare che c’erano tutti, nonostante le offerte di espatrio degli americani. Bene, in quella immagine ci sono cinque persone, di cui quattro non arrivano ai cinquant’anni. Due, incluso Zelensky, sono di origine ebraica, il terzo è un georgiano, solo due sono di etnia ucraina. Questo ci mostra l’evoluzione dell’identità ucraina: civile, non etnica, patriottica, non di sangue. Ma soprattutto è il ritratto di una generazione di giovani, che si guarda in faccia con la generazione precedente, quella che è ancora alla guida della Russia. C’è un nuovo ceto medio globale, una classe urbana, giovane e secolarizzata, che sfida gli autoritarismi, e che dal Cile alla Turchia, dall’Estremo oriente all’Europa, ha caratteristiche assai più comuni e condivise di quello che potremmo immaginare. L’Ucraina contemporanea è un caso di successo di questo nuovo ceto, che da EuroMaidan in avanti ha preso le redini del paese”. Se nel 1991 la Russia di Eltsin consentì che l’Ucraina andasse per conto suo, ragiona lo storico, era solo perché nessuno nella cerchia del presidente russo, a partire da lui, credeva seriamente che l’Ucraina sarebbe stata in grado di costruirsi un suo stato. “Erano schiavi delle tesi hegeliane di cui dicevo prima: non avendo mai avuto uno stato, l’Ucraina non sarebbe mai stata in grado di farsene uno. Si aspettavano semplicemente che nel giro di pochi anni o forse addirittura mesi si sarebbe ritrovata in ginocchio, che sarebbe andata a supplicare alla Russia di riaccoglierla nel suo seno. Qual è il problema? Che intanto sono passati trent’anni, e l’Ucraina ha continuato a non tornare. Ecco perché Putin decide di invaderla già nel 2008, all’indomani dell’invasione della Georgia. Perché già allora si rendeva conto che più il tempo passava e più a Kyiv si formava una nuova generazione di politici che con la Russia non voleva avere più niente a che fare, che guardava a Occidente, all’Europa. E allora l’Ucraina sarebbe stata persa per sempre. Che è precisamente quello che sta succedendo. Ora Putin si dichiara seriamente il leader del mondo anti occidentale che deve porre fine alla dominazione dei paesi delle democrazie liberali. Egli è convinto di combattere non contro l’Ucraina, ma contro l’occidente sul territorio dell’Ucraina. L’Ucraina rappresenta la goccia che determinerà quale dei due lati prevarrà tra i piatti della bilancia dell'equilibrio mondiale. E ogni vittoria dell’Ucraina sul campo di battaglia avvicina la fine della guerra”.
La libertà, si diceva, è anche di non avere un passato nemmeno confortevole, figurarsi idilliaco, a cui tornare. “Se il vostro ideale è una bella vita comoda siate contenti del fatto che non siete nati in Ucraina nel Novecento: un posto dove nel solo periodo tra le due guerre è morto quasi un uomo su due e una donna su tre”. La libertà è quella di sfatare le previsioni, di essere il granello che manda in pezzi l’inevitabile, trionfale incedere della Grande Storia. “Che poi la storia non la conosciamo mai per davvero, possiamo solo ragionare in termini di diversi livelli di ignoranza. Sull’Ucraina magari io sono un po’ meno ignorante di altri. Ma se c’è uno che la storia dell’Ucraina ha dimostrato di non conoscerla proprio per niente è Putin. Perché quello che vediamo adesso lo abbiamo già visto nel passato: gli ucraini sono molto bravi nell’unirsi, nel creare legami di solidarietà. Tutte le volte che incombe una minaccia si difendono bene. Gli ucraini sono campioni di sopravvivenza. E questo, Putin, grazie a Dio, non lo aveva capito”.