Il fronte nord
Il Libano è un paese stremato che teme di finire in guerra trascinato da Hezbollah
L’arsenale del Partito di Dio si è fatto grande mentre Beirut collassava. I timori che un conflitto sia alle porte del paese attraversano tutta la regione
Milano. L’olio di oliva, denso e scuro e dal sapore pesante, è la base della cucina libanese, uno dei pochi prodotti di questo piccolo paese a non essere importati dall’estero e ad avere quindi prezzi contenuti. Eppure, in questi ultimi mesi, in cui l’inflazione ha raggiunto numeri a tre cifre, in molti non possono più permettersi quello che un tempo era un acquisto ricorrente. “Abisso”, “catastrofe” sono i termini usati dalla stampa internazionale negli ultimi quattro anni per descrivere l’entità della crisi economica e sociale del Libano.
La moneta locale ha perso il 98 per cento del suo valore, il pil è crollato del 40 per cento e nelle casse della Banca centrale sono evaporati due terzi delle riserve in valuta estera. Dalle parti della politica, la situazione non è migliore: il Parlamento non riesce a eleggere un presidente, bloccato dalle faide locali, e questo non importa a nessuno perché nessuno ha più fiducia in una politica che non è stata capace di portare davanti ai giudici una sola persona per la devastante esplosione al porto che il 4 agosto 2020 ha distrutto vaste parti della capitale e ucciso oltre 200 persone. Da allora, piegati più che dalla crisi economica dall’ineluttabile consapevolezza di vivere in un paese in cui è lo stesso governo a mettere in pericolo i propri cittadini, migliaia di libanesi sono emigrati all’estero, andando a ingrandire la diaspora della guerra civile, tra il 1975 e il 1990.
Peggio di così potrebbe solo esserci una guerra. “Nessuno la vuole in Libano. Eppure, potrebbe esserci”, ha scritto Foreign Policy in questi giorni in cui le atrocità di Hamas contro i civili nel sud di Israele, il massacro di 1.300 civili e il rapimento di 200 persone, hanno portato la regione sull’orlo di un baratro. I governi di Arabia Saudita e Stati Uniti hanno nelle scorse ore chiesto ai propri cittadini di lasciare al più presto il Libano. Da giorni, Israele rafforza la presenza dei suoi soldati lungo il confine nord, dove cresce la tensione, con episodici lanci di razzi e colpi di mortaio, tra l’esercito e gli uomini di Hezbollah, gruppo armato e sciita alleato di Hamas e come Hamas considerato terroristico da Stati Uniti e Unione europea, finanziato e sostenuto dall’Iran. L’estensione della sua risposta – spiegano molti osservatori – dipende dal futuro dell’operazione militare di Israele in corso su Gaza. I vertici militari preparano un’operazione di terra con l’obiettivo di sradicare completamente Hamas, che rischia di essere lunga e sanguinosa e di innescare le reazioni dei proxy iraniani nella regione. Centinaia di sostenitori di Hezbollah e delle fazioni palestinesi in Libano si sono inoltre scontrati mercoledì con l’esercito a Beirut, nel tentativo di avvicinarsi all’ambasciata americana, durante una protesta in sostegno di Hamas e dei civili di Gaza il giorno dopo l’esplosione in un ospedale della Striscia, dove secondo la Croce Rossa ci sono duemilaottocento morti. Nelle stesse ore, il presidente americano Joe Biden, in visita in Israele, ha accusato i gruppi terroristici di Gaza di essere all’origine della deflagrazione. L’intelligence americana secondo il Wall Street Journal ritiene si sia trattato infatti della traiettoria fallita di un missile del Jihad islamico. Dall’altra parte Hamas – e diversi paesi arabi – denunciano Israele per la strage. Le piazze del mondo arabo, che si preparano oggi a un “venerdì della rabbia”, hanno già deciso senza attendere il risultato di un’inchiesta internazionale.
I timori che un conflitto sia alle porte del Libano attraversano tutta la regione. Nelle condizioni in cui si trova il paese, sembrerebbe impossibile pensare che Hezbollah possa avere intenzione di trascinare la nazione in una nuova guerra. In 34 giorni di conflitto con Israele del 2006 morirono oltre mille libanesi e 165 israeliani, e servirono anni al Libano per riprendersi economicamente in un momento in cui le sue finanze godevano di una salute migliore. Nel 2019, inoltre, quando milioni di persone scesero in strada contro i primi indizi di crisi economica e soprattutto contro un sistema politico settario e corrotto, la sorpresa furono le importanti manifestazioni nelle roccaforti sciite del potere di Hezbollah, per la prima volta messo in dubbio dalla sua stessa fedele base. Eppure, la stessa ragione d’essere del Partito di Dio resta l’eterna contrapposizione con Israele, la retorica e la narrazione della difesa del paese che permette alle milizie d’ammassare quelle armi con cui tiene in ostaggio da decenni un’intera nazione. Questo arsenale sarebbe aumentato negli anni, assieme alle capacità militari dei miliziani del gruppo, che a lungo hanno combattuto in Siria, sostenuti dall’Iran, permettendo al sanguinario dittatore Bashar el Assad di sopravvivere alla storia. Rispetto al conflitto del 2006, quando avevano a disposizione circa 14 mila razzi, oggi ne avrebbero quasi 150 mila, ha detto ad al Jazeera l’esperto dell’Atlantic Council, Nicholas Blanford.