Il viaggio
Gerusalemme, il mistero di una realtà ineffabile in un'umanità quotidiana
Nel suo ultimo libro, Eric-Emmanuel Schmitt, va in pellegrinaggio in Terra Santa in maniera distaccata, ironica e a volte sarcastica. Il corpo a corpo ingaggiato con la città eterna
Non avevo mai litigato con un libro. Con La sfida di Gerusalemme di Eric-Emmanuel Schmitt (Lev in condivisione con e/o, 155 pp., 17 euro) ci sono riuscito. Ho rivissuto con questo libro la battaglia, il corpo a corpo che il suo autore ha ingaggiato con la città eterna. A pagina 9 – dove scrive “alcuni filosofi impoveriscono il nostro sguardo sostenendo che il desiderio rappresenti una mancanza, che sia l’espressione di un vuoto, un nulla da riempire. Io invece ci vedo il pieno, non è un vuoto, è un pieno” – ero già totalmente con lui. Poi sono incominciati i fastidi, l’alternanza di adesione e repulsione. Schmitt va in pellegrinaggio in Terra Santa quasi riottoso, ma ci va convintamente, e non sembri un paradosso. Non è un pellegrino devoto, è distaccato, ironico, a volte sarcastico. E ne è pienamente cosciente, cita spesso “il Voltaire che è in me”. Ma non è questo che mi ha irritato, anzi. L’occhio quasi scettico è un toccasana, dissolve il fastidioso velo di devozione irriflessa che è la vera tentazione di questi viaggi. Quindi là dove dice che “conoscere è un fatto di attenzione”, oppure che “da vecchi sappiamo che si ubbidisce” alla realtà l’ho seguito consentaneo. Quando ricorda che il suo catechista “più che al cristianesimo ci iniziava ai valori cristiani”, mi sono pienamente immedesimato nel giudizio. Poi, a un certo punto se la prende con Luca, e lo fa per la pagina a me più cara del suo vangelo, quella dell’Annunciazione. Lì è iniziata l’irritazione. Che si è ri-tramutata in entusiasmo quando, a fronte della prosopopea del moderno sapiente forte delle sue presunte certezze, se ne esce con un liberatorio “niente è più bello dell’incapacità”.
L’ho seguito curioso nella sua battaglia con Gerusalemme, “orgogliosa, insolente, insopportabile, arrogante, dura”, mi ha provocato una istintiva reazione di estraneità il misticismo che lo invade in alcune tappe del suo pellegrinaggio, ma è stato ampiamente compensato dal realismo descrittivo dei luoghi della vita di Cristo e delle persone che li abitano ora, che dovrebbero innescarne la memoria e invece pare facciano il possibile per mostrare la loro miseria, la loro pochezza, la loro rozzezza, insomma la loro cruda umanità. E’ questa l’arma più convincente di questo libro: l’incarnazione, il mistero di una realtà ineffabile in un’umanità quotidiana. E il vederla, paradossalmente ma neanche troppo, ne accentua la misteriosità. Schmitt finisce il suo pellegrinaggio letteralmente spossato: “Pensavo di attraversare Gerusalemme, Gerusalemme ha attraversato me”. Non s’è fatto pio, solo prega e partecipa all’eucaristia con diversa coscienza, ammette (il suo è quasi un cedimento) di essere passato da un cristianesimo spirituale a uno incarnato: “La mia fede è diventata un assenso alla realtà”. C’è un fatto, un avvenimento decisivo e determinante in cui Schmitt, fedele cronista degli eventi fuori e dentro di sé, dice che “l’essenza le ha schiacciato l’accidentale”. Al lettore scoprirlo, così come l’ha colto Papa Francesco che, letto il libro dopo un’udienza concessa allo scrittore francese, ha voluto impreziosirlo con una sua lettera all’autore riportata in calce. “La sfida di Gerusalemme” vale la pena. Sia come lettura, sia come sfida.
P. S. Sotto il security fence Schmitt è sensibilmente colpito e insieme molto lucido, realista, comprensivo senza giustificazioni, scrive più avanti che “ormai l’essenza dell’anima ebraica include il timore permanente della propria distruzione”. Là dove riflette che “la storia umana si riduce a una tensione tra due elementi architettonici: il muro e il ponte… il muro divide, il ponte avvicina” ho pensato che la storia umana s’è fatta carico di smentire anche questa simbologia che sembrava acquisita, è riuscita a costruire un ponte che divide, quello che collega (e sottomette) la Crimea alla Russia per poterla distaccare dall’Ucraina