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Antony Blinken, il globetrotter che parla col mondo per Biden

Marco Bardazzi

Ebreo cosmopolita, ha buoni motivi per sentirsi a casa a Kyiv come a Tel Aviv o a Parigi. La vocazione per il multilateralismo, l’istinto interventista, i successi e i dossier controversi. Ritratto del segretario di stato americano

Quando Antony Blinken arriva in Ucraina, tappa frequente da anni dei suoi viaggi intorno al globo, sa di essere a casa: le sue radici sono nella comunità yiddish di Perejaslav, una località a sud di Kyiv affacciata sul Dnepr. Quando Blinken atterra a Tel Aviv e si fa raccontare gli orrori di Hamas, i suoi ricordi corrono probabilmente a un pomeriggio di tanti anni fa trascorso ad ascoltare il patrigno, sopravvissuto alla Shoah, mentre gli descriveva tutto quello che aveva vissuto ad Auschwitz e Dachau. Quando Blinken fa sosta a Parigi, sfodera il francese perfetto imparato da ragazzo vivendo sulla Senna e sembra uno che abbia trascorso tutta la vita in Europa, invece che negli Usa.

Poche volte negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno avuto un segretario di stato cosmopolita e poliglotta come Blinken, con una forte impronta europea, un’educazione nei college dell’Ivy League americana, un network di amici in ogni paese del globo, una vocazione assoluta per il multilateralismo, un istinto interventista e un senso della tragicità della storia che lo accompagna sempre come ebreo. Il tutto unito a un’ironia di fondo che si esprime nella sua vena artistica, quella che emerge non appena impugna la chitarra e si esibisce con la propria band (“Patience” è un suo singolo disponibile su Spotify, titolo perfetto per uno che di lavoro fa il capo della diplomazia americana).

Blinken è la mente di politica estera dietro Joe Biden e in questi ultimi tempi è anche il suo alter ego e apripista in mezzo alle molteplici crisi che l’amministrazione americana sta provando a gestire. Dall’Ucraina al medio oriente, ma con un occhio sempre rivolto anche a Taiwan e alla Cina, per il timore che prima o poi si apra un terzo fronte, forse quello più pericoloso di tutti. L’attacco di Hamas e la nuova guerra a Gaza lo hanno messo di nuovo sotto i riflettori, soprattutto per il frenetico salto da una capitale araba all’altra con cui ha cercato di costruire una strategia per isolare e abbattere Hamas, provando a scongiurare nello stesso tempo una carneficina nella Striscia.

Biden ama ricordare spesso di avere un’esperienza in politica estera paragonabile in America solo a quella di Henry Kissinger (uno dei pochi esponenti politici americani più anziani del presidente) ed è vero che i suoi legami con Israele risalgono ai tempi in cui andava in visita a Golda Meir. Ma sono oltre vent’anni che l’artefice principale della politica estera di Biden è Blinken, fin dai tempi in cui era suo assistente in Senato.

L’attuale capo della diplomazia di Washington è diverso da gran parte dei suoi più recenti predecessori. Non gli assomigliano Rex Tillerson e Mike Pompeo, i segretari di stato dell’amministrazione Trump. Non è un ex militare All American come John Kerry o Colin Powell, né un navigato esponente della politica come Hillary Clinton, un intellettuale come Condoleezza Rice o uno stratega legale prestato al governo come Warren Christopher o Jim Baker. Forse i predecessori che più condividono tratti comuni con lui sono due ex immigrati europei che hanno occupato il suo stesso ufficio a Foggy Bottom: Kissinger e Madeleine Albright. 

 

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Per capire Blinken e il carisma che emana quando si muove nel mondo, bisogna conoscere la storia della sua famiglia. O meglio, delle tre famiglie su cui poggia il suo percorso di vita e della quarta che ha costruito insieme a Evan Ryan, una cattolica di origini irlandesi che ha conosciuto alla Casa Bianca quando lui lavorava per Bill Clinton e lei per Hillary: si sono sposati in una chiesa cattolica con un rabbino e un prete a celebrare insieme.

La prima famiglia che ha segnato la vita dell’attuale segretario di stato è quella che risale a Meir Blinken, uno scrittore yiddish ucraino che a 25 anni fu tra gli oltre centomila ebrei dell’Europa dell’est che nel 1904 si mossero in massa verso New York, per costruire una nuova vita. La diplomazia scorreva già nelle vene della dinastia, insieme alla scrittura, alla politica e alle capacità imprenditoriali. Suo nipote Donald, il padre di Antony (non Anthony con la “h”, come sarebbe più consueto negli Usa, perché il nome è ispirato a “Antony and Cleopatra” di Shakespeare), era un uomo d’affari di successo e un sostenitore dei democratici, premiato dall’allora presidente Clinton con un posto da ambasciatore degli Usa in Ungheria. Non mancava, in famiglia, neppure la sensibilità artistica: Donald Blinken fu tra l’altro un filantropo che sostenne la carriera di Mark Rothko e fondò e guidò la fondazione a lui dedicata.

La seconda famiglia è quella di sua madre, Judith Frehm, discendente di ebrei ungheresi e con altri legami con il mondo diplomatico: uno degli zii di Blinken dal lato materno è stato ambasciatore in Belgio.

E poi c’è la famiglia del patrigno, forse quella che ha lasciato il segno più profondo nell’uomo che guida il Dipartimento di stato. Donald e Judith si separarono, lei lasciò New York con il piccolo Tony e si risposò con un ebreo di origini polacche, Samuel Pisar, andando a vivere a Parigi. Qui il futuro segretario di stato ha trascorso buona parte dell’infanzia e dell’adolescenza e a leggere la biografia del padre acquisito non è difficile immaginare l’impronta che ha lasciato su Antony. Il ramo familiare dei Pisar affonda le radici in Polonia ed è stato in gran parte sterminato durante l’Olocausto. Samuel era praticamente l’unico rimasto, dopo essere riuscito a sopravvivere ai campi di Majdanek e Dachau (dove fu inviato a 13 anni) e alle camere a gas di Auschwitz. Rintracciato dopo la guerra da un lontano parente, fu mandato a studiare a Parigi e poi in Australia, dove cominciò una carriera accademica che lo portò fino a ottenere un dottorato a Harvard.

Qui cominciò per Pisar una carriera di studioso della Guerra fredda e poi consigliere politico prima del presidente americano John F. Kennedy e poi di quello francese Valéry Giscard d’Estaing. Divenne anche avvocato delle star di Hollywood, con clienti come Catherine Deneuve, Jane Fonda, Liz Taylor e Richard Burton. E’ in questo mondo che si trovò catapultato il piccolo Tony quando la madre conobbe Pisar a New York e lo seguì a Parigi. Non che per Blinken bambino fosse una novità stare in mezzo a gente famosa: nel salotto di casa del padre Donald passavano Rothko, Robert Rauschenberg, Leonard Bernstein e molti altri artisti.

Prima che sui libri di scuola, il futuro segretario di stato ha imparato da Pisar che cosa sia stata la Shoah. “Voleva sapere cosa mi fosse accaduto quando avevo la sua età”, ha raccontato Pisar al Washington Post nel 2013, all’epoca in cui Blinken era un consigliere per la Sicurezza nazionale nella Casa Bianca di Barack Obama, incaricato di seguire in particolare il dossier Siria. Erano i giorni in cui l’America si interrogava sulla risposta da dare al presidente siriano Bashar Assad, che aveva appena usato le armi chimiche nella guerra civile in corso nel paese, provocando centinaia di morti. “Il racconto di quello che mi era successo – disse Pisar, parlando di Blinken – lo impressionò molto e gli diede un’altra prospettiva, un modo diverso di guardare alle vicende del mondo. Quando oggi si interroga sui gas velenosi in Siria, quasi inevitabilmente pensa a quei gas con cui fu eliminata interamente la mia famiglia”.

La vicenda siriana è rimasta una ferita aperta ancora oggi per Blinken e un punto interrogativo nel suo curriculum, come in quello di Obama. Blinken era lo stratega della Casa Bianca sulla Siria, aveva spinto il presidente a indicare la “linea rossa” che Assad non doveva oltrepassare (quella delle stragi indiscriminate sul proprio popolo), aveva ribadito pubblicamente che “le superpotenze non bluffano”. Eppure all’ultimo momento gli Usa si erano fermati, il cerebrale Obama si era macerato nella decisione su cosa fare e alla fine aveva deciso di tener fuori gli Usa dal caos siriano.

Nel 2020, quando guidava la politica estera di Biden durante la campagna elettorale contro Donald Trump, Blinken era tornato a parlare di quegli anni ammettendo che nel caso della Siria l’amministrazione Obama “aveva fallito: non è stato un fallimento dovuto alla mancanza di volontà o al non aver provato a cambiare le cose, ma non siamo riusciti a prevenire una terrificante perdita di vite umane”. E’ inevitabile che la memoria del caso siriano e dei racconti di Samuel Pisar sulle camere a gas accompagnino adesso Blinken, mentre ricostruisce l’orrore dell’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre.

Da Parigi dove ha compiuto gli studi scolastici, Blinken tornò a vivere in America alla fine dell’adolescenza, collezionando una laurea ad Harvard (per realizzare la tesi andò a intervistare Kissinger) e un dottorato in Legge alla law school della Colombia University. Qui divenne lo studente prediletto del professor Richard Gardner, rientrato negli Usa dopo essere stato l’ambasciatore in Italia negli Anni di piombo e del sequestro Moro. Il figlio di Gardner, Anthony, è il miglior amico di Blinken, hanno entrambi lavorato nelle amministrazioni Clinton e Obama e anche Tony Gardner ha un profilo diplomatico: è stato fino al 2017 l’ambasciatore degli Usa presso l’Unione Europea.

Il decollo della carriera di Blinken risale agli anni Novanta dell’amministrazione Clinton, vissuti in buona parte nel Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, dove il team di esperti di politica estera democratici si rese conto che era un fuoriclasse. Lo capì soprattutto il senatore Joe Biden, che appena si concluse la presidenza di Clinton e si aprì quella di George W. Bush, portò Blinken in Senato a guidare il suo staff di presidente della commissione Esteri. E’ a quest’epoca che risale un altro passaggio, nella biografia del segretario di stato, che come quello relativo alla Siria suscita interrogativi e giudizi contrapposti. Fu in buona parte Blinken a spingere Biden a sostenere la decisione di Bush di invadere l’Iraq. Una scelta di politica estera che l’attuale presidente ha dovuto difendere e spiegare più volte negli anni scorsi e che gli ha provocato non pochi problemi agli occhi del mondo dei democratici. E c’era l’impronta di Blinken anche su un piano, assai controverso, che Biden ha proposto per anni e che è stato rigettato da quasi tutti, negli Usa e in medio oriente: la divisione dell’Iraq in tre regioni autonome divise per etnie e religioni.

In quegli stessi anni, mentre lavorava per Biden in Senato, Blinken sposò Evan Ryan e alla cerimonia di nozze in prima fila c’erano i Clinton. Il futuro segretario di stato durante il ricevimento fece un brindisi di ringraziamento ai 40 milioni di americani che avevano mandato Bill Clinton alla Casa Bianca: senza di loro, disse, non avrebbe avuto occasione di incontrare Evan. La signora Blinken ha lavorato a sua volta nell’amministrazione Obama e oggi è il capo dell’ufficio di gabinetto nella Casa Bianca di Joe Biden. Gli impegni professionali di alto profilo di entrambi i coniugi non li hanno scoraggiati dall’allargare negli ultimi anni la famiglia: i Blinken hanno un bambino di quattro anni e una bambina di tre.


Nel 2008 Antony Blinken seguì Biden nel suo fallito tentativo di conquistare la nomination presidenziale, ma quando Obama lo scelse come vicepresidente, anche Blinken si trovò catapultato alla Casa Bianca. Di nuovo nel team della sicurezza nazionale come ai tempi di Clinton, ma stavolta in un ruolo di maggiore spessore e responsabilità. Fu lui a disegnare le strategie per il medio oriente, l’Afghanistan e il Pakistan. E’ stato fra gli strateghi dell’operazione che portò all’uccisione di Osama bin Laden: nella celebre foto che racconta la tensione nella Situation Room della Casa Bianca nei momenti finali del blitz, lo si vede in piedi tra lo staff di civili e militari che circonda Obama, Biden e Hillary Clinton. 

Agli anni del lavoro con Obama risalgono altri tre dossier controversi che dividono i sostenitori e i critici di Blinken, oltre a quelli relativi a Siria e Iraq: la risposta alle Primavere arabe, l’intervento militare in Libia e il piano per bloccare il programma nucleare iraniano. La Libia provocò l’unica rottura di cui si ha notizia tra Biden e Blinken: il vicepresidente era contrario all’intervento militare, il consigliere invece spinse Obama ad approvarlo. Blinken è un forte sostenitore delle alleanze internazionali e del dialogo con gli alleati, soprattutto europei, ma è sempre stato anche un interventista. Lo era nella crisi del Kosovo negli anni Novanta, lo era sulla Siria (non è chiaro se si sia adeguato alla linea di Obama o se l’abbia contestata privatamente con il presidente), lo è stato sull’Iraq e sulla Libia. Avrebbe voluto una risposta più forte contro la Russia quando invase la Crimea e la “sua” Ucraina nel 2014. E’ stato deciso nell’incoraggiare l’uccisione di bin Laden, lodando pubblicamente Obama per essersi preso la responsabilità di provarci.

In un articolo scritto nel 2019 per la Brookings Institution insieme a Robert Kagan, Blinken spiegò la propria dottrina, sostenendo che “una politica estera responsabile richiede una combinazione di diplomazia attiva e deterrenza militare. La forza può essere necessaria in aggiunta a una diplomazia efficace. In Siria, giustamente cercammo di evitare un altro Iraq non facendo troppo, ma finimmo per compiere l’errore opposto di fare troppo poco”.

Restano, di quegli anni alla Casa Bianca, i dubbi che ancora circondano il giudizio sulle scelte di Obama di fronte alle rivolte nei paesi arabi e il tentativo di contenere diplomaticamente l’Iran per frenarne il programma nucleare. Dubbi che non ci sono invece sulla risposta che il tandem Biden-Blinken ha dato sulla guerra in Ucraina, affrontata subito di petto e con grande lucidità insieme all’Unione Europea.

Ora è il momento della grande sfida di gestire il medio oriente ancora in fiamme. Ma per quanto Blinken sia concentrato su Kyiv e Gerusalemme, la sua attenzione e le sue preoccupazioni continuano a rivolgersi anche più a est. Alla Cina, il vero dilemma della politica estera americana dei prossimi anni. Da quando è segretario di stato, Blinken ha trascorso un’enorme quantità di tempo in Asia, a studiare la situazione, costruire alleanze, cercare di rafforzare i rapporti con l’India e fare tutto il possibile per contenere Pechino. 

Putin e Hamas sono i nemici del momento, ma il mondo visto da Foggy Bottom continua ad avere Pechino in cima alla lista delle priorità e delle sfide da affrontare. 

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