via terra

È possibile liberare gli ostaggi e Gaza da Hamas?

Micol Flammini

Israele rinvia l'ingresso nella Striscia e sulla decisione pesano le pressioni degli Stati Uniti, convinti che sia necessario prendere tempo per trattare sui prigionieri. Secondo la stampa israeliana neppure Netanyahu è favorevole a un'operazione di terra, ma non ci sono altre opzioni

Erano state alcune fonti del Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu, a dire alla stampa  che sarebbe stato proprio lui, proprio Bibi, proprio il leader del loro stesso partito il primo a non essere d’accordo con l’ingresso delle truppe israeliane a Gaza. Alcuni deputati avevano raccontato che al massimo il premier avrebbe accettato un’operazione rapida, per mostrare che qualcosa era stato fatto, che i soldati erano entrati a Gaza anche se presto usciti, ma i piani dell’esercito sono diversi. Oggi, dopo settimane in cui il ministro della Difesa Yoav Gallant e vari generali continuavano a definire l’operazione dentro alla Striscia “imminente”, per la prima volta è stato annunciato dalla radio delle Forze armate che Israele ha deciso di ritardarla in attesa di nuovi aiuti da parte degli Stati Uniti. Secondo l’esercito però l’offensiva non è ritardabile, gli uomini sono pronti e gli obiettivi contro Hamas possono essere raggiunti soltanto da dentro la Striscia. L’obiettivo è uno solo: eliminare l’intera organizzazione, conoscerne ogni singolo tunnel, ogni singolo centro di controllo, acquisire tutte le informazioni che evidentemente lo stato ebraico non ha ora e  non aveva quando è stato compiuto l’attacco terroristico del 7 ottobre. Militari e analisti sono consapevoli che l’ingresso a Gaza potrebbe comportare delle perdite pesanti per l’esercito, sono consapevoli anche della possibilità che l’offensiva potrebbe aumentare la pressione dei bombardamenti dal Libano da parte di Hezbollah, ma sostengono che i piani di risposta sono già pronti e che con un’operazione via terra, l’aviazione sarebbe più libera per occuparsi degli altri nemici. Una spaccatura dentro la leadership israeliana c’è, ed è silenziosa: oggi è stato rilasciato un comunicato congiunto da parte del premier, del ministero della Difesa e dello Stato maggiore per dire che la fiducia è totale e reciproca. 

 

Secondo i media, da una parte c’è l’esercito, dall’altra c’è Netanyahu che con messaggi tra le righe, come raccontano i suoi stessi deputati, privatamente mostra di non appoggiare l’ingresso a Gaza, davanti alle telecamere invece esorta i soldati a vincere. Il giornalista di Haaretz Anshel Pfeffer, biografo del premier e sempre ben informato,  ha scritto che sono molti i segnali che Netanyahu sta mandando indirettamente e con cui cerca di far apparire i generali come dei cinici che non temono per la vita dei loro soldati. L’operazione del premier sarebbe molto più ampia e cerca di addossare su Tsahal e Shin Bet la responsabilità di aver sottovalutato la minaccia terroristica e di non aver protetto adeguatamente i cittadini. Le responsabilità ci sono, ma la linea militare è chiara: prima ci occupiamo di vincere, poi di punire i nostri colpevoli. Netanyahu,  agitato per i sondaggi che mostrano gli israeliani sempre più propensi a indicarlo come colpevole di ogni sottovalutazione, sta facendo partire con il contagocce la ricerca delle colpe. Per quanto riguarda l’operazione a Gaza, secondo il premier bisogna continuare a bombardare i bunker di Hamas e soltanto poi sarà il caso di mandare gli uomini. L’esercito ha chiamato i riservisti, ha messo in sicurezza i confini di Israele, ha preparato tutto per l’operazione, adesso la guerra e l’attesa rischiano di paralizzare il paese. 

 

Gli Stati Uniti sono convinti che sia meglio aspettare, avallano l’operazione, ma credono che sia il caso di dare il tempo ai negoziati segreti per liberare gli ostaggi gestiti dal Qatar, che ha molti contatti con la leadership di Hamas in quanto paese di residenza di alcuni dei suoi leader. Gli americani temono che l’incursione via terra potrebbe complicare la situazione in medio oriente, sanno che non sarebbe semplice, che potrebbe diventare rischiosa anche per il loro di esercito e premono sulla diplomazia che però al momento prevede due interlocutori: Israele e il gruppo di terroristi che minacciano l’esistenza dello stato ebraico. Non ci sono soluzioni politiche in vista, non c’è un dopo Hamas, per questo secondo la Difesa israeliana l’unica opzione è liberare la Striscia dai terroristi e creare le condizioni per un cambiamento e l’arrivo di un interlocutore. I tempi non sono chiari e la battaglia dentro Gaza avrebbe il ritmo e la pericolosità di un’operazione di guerriglia. 

 

Venerdì Hamas ha liberato due ostaggi, madre e figlia israeloamericane, oggi ha liberato altre due donne e potrebbe rilasciare altri ostaggi  con doppia nazionalità. Sui prigionieri il dibattito è doloroso e aperto, le informazioni che l’esercito potrebbe raccogliere sul campo potrebbero essere utili per liberarli, ma il rischio per le loro vite è legato al momento esatto dell’ingresso dentro alla Striscia di Gaza. Le famiglie degli ostaggi criticano sempre di più il governo, molte non approvano che l’operazione a Gaza sia stata posticipata. Più si va avanti più le prove e i documenti che raccontano il 7 ottobre si fanno dettagliati. I terroristi sono entrati in Israele con un manuale d’invasione: il compito era causare il più alto numero di vittime possibile, uccidere con ogni mezzo, umiliare e far soffrire. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)