Escalation di rivendicazioni
Il test di Pechino nel Mar cinese meridionale
Due collisioni con navi filippine e un’altra crisi che cresce. Manila ha cambiato strategia contro la Cina aggressiva: ora si vede tutto in diretta tv
Roma. Domenica scorsa due episodi di speronamento nel Mar cinese meridionale dimostrano il tentativo della Cina di aumentare la tensione nelle acque strategiche amministrate dalle Filippine e rivendicate da Pechino dove ogni anno passa il 21 per cento del commercio globale. Oltre al lento cambiamento dello status quo per affermare la propria influenza – viene definita la tattica dell’affettare il salame – l’obiettivo cinese è anche quello di testare la comunità occidentale impegnata contemporaneamente su due fronti, Ucraina e medio oriente.
Quelli di domenica non possono essere definiti incidenti isolati. Ma da qualche mese ormai il governo di Manila, che più subisce l’assertività e l’aggressività cinese nelle acque del Mar cinese meridionale, cerca di rendere le azioni cinesi visibili al mondo imbarcando troupe televisive e giornalisti sulle navi che portano i rifornimenti ai marinai stanziati a presidio di alcune delle isole che fanno parte dell’arcipelago Spratly. Lo speronamento in diretta tv è avvenuto nelle acque attorno al secondo atollo Thomas, dov’è posizionata la BRP Sierra Madre, una nave cisterna da sbarco della Marina filippina, dove dovevano arrivare le navi di rifornimento inviate da Manila. Nei video diffusi dalle Forze armate filippine, si vede una nave della Guardia costiera cinese che si avvicina e poi sperona una piccola imbarcazione filippina. In un altro video c’è una nave della potente milizia marittima cinese che sperona una nave della Guardia costiera filippina. E in particolare della milizia marittima cinese si parla da mesi: li hanno chiamati “gli omini blu” della Cina, come gli omini verdi di Putin che si presentarono senza insegne in Crimea nel 2014, e sarebbe composta da centinaia di imbarcazioni poste da Pechino a controllo dell’area del Mar cinese meridionale senza dover coinvolgere direttamente e con ufficialità la Marina dell’Esercito popolare di Liberazione. In un comunicato pubblicato pochi minuti dopo quello delle Forze armate filippine, Pechino ha fatto sapere che sono state le altre due imbarcazioni a “sconfinare” in quelle che vengono considerate “acque cinesi” senza autorizzazione, e sono state quelle ad aver causato le pericolose collisioni. Nell’agosto scorso, in una situazione molto simile, una nave della Guardia costiera cinese ha sparato cannoni ad acqua contro un’imbarcazione filippina per costringerla ad allontanarsi dall’arcipelago. Sei mesi prima, per la prima volta da una delle sue imbarcazioni la Cina ha usato dei laser militari contro l’equipaggio di una nave filippina. A fine settembre Manila ha diffuso il video di “un’operazione speciale”: un sub che tagliava un cavo cinese, una barriera navale posta come confine delle aree rivendicate. Pechino aveva risposto negando l’esistenza del cavo e accusando le Filippine di aver fabbricato il video.
L’escalation delle azioni cinesi a sostegno delle rivendicazioni di Pechino è evidente. Nel 2016, quando un tribunale arbitrale stabilì molto chiaramente che le tesi con le quali la Cina rivendica gran parte del Mar cinese meridionale erano prive di ogni fondamento storico e quindi nulle, Pechino reagì ignorando tribunale e decisione. Ma all’epoca a Manila si era appena insediato l’ex presidente, Rodrigo Duterte, e una giornalista investigativa filippina – molto nota al pubblico ma che preferisce non essere menzionata su questa vicenda – spiega al Foglio che quel passaggio politico è fondamentale per capire cosa sta succedendo oggi tra Pechino e Manila. Mentre internamente andava avanti con politiche autoritarie e violente, Duterte ha fatto di tutto per imbonirsi la Cina, accettando qualunque compromesso con la leadership di Xi Jinping e cercando di minimizzarne gli effetti con il pubblico. Poi, a gennaio dello scorso anno, alla presidenza delle Filippine è arrivato Bongbong Marcos Jr., figlio del presidente-dittatore Marcos. Da allora la situazione è drammaticamente cambiata: Marcos ha riattivato i canali di comunicazione con l’America, rafforzato il Trattato di mutua difesa tra Stati Uniti e Filippine del 1951 aprendo alle Forze armate americane quattro nuove basi militari sul suo territorio. A novembre dello scorso anno la vicepresidente americana Kamala Harris ha visitato per la prima volta Palawan, un’isola delle Spratly, che si trova a quasi duecento chilometri dal secondo atollo Thomas.
Nel frattempo tra la popolazione filippina cresce il sentimento anticinese. Sono molto frequenti le manifestazioni e le proteste contro la Cina che vuole appropriarsi dell’arcipelago Spratly – anche con la costruzione di isole artificiali e militarizzate, come dimostrano le immagini satellitari. Gruppi civili hanno comprato gli spazi pubblicitari di un’intera via centrale di Manila per rivendicare la territorialità dell’area del Mar cinese meridionale.
Ieri il governo filippino ha convocato l’ambasciatore cinese a Manila per protestare contro il progressivo aumento delle attività aggressive da parte della Guardia costiera e delle milizie cinesi nell’area. La portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, durante la quotidiana conferenza stampa ha detto ieri: sono le Filippine a violare “la sovranità territoriale cinese” e a dover fermare le azioni provocatorie. Il rovesciamento della realtà, per la potenza che vuole dettare le nuove regole del mondo, è sistematico.