medio oriente
L'arma segreta di Israele contro Hamas è lo spirito del suo popolo
È una guerra che si combatte su tutti i fronti, tutti sono coinvolti, nessuno resta con le mani in mano. La resistenza dello stato ebraico in guerra
Ra’anana. Spade di ferro è il nome che è stato dato all’inizio alla guerra che Israele sta combattendo contro Hamas, in seguito al massacro del 7 ottobre, ma è un nome inadeguato alla portata dell’evento, come inadeguate sono le parole con cui, dopo i primi momenti di choc, si sta provando ora a costruire la narrazione dei fatti. Sì, perché anche termini come pogrom, trucidare, bruciare vivi, all’inizio sono stati usati con titubanza, in punta dei piedi, come se fosse vietato attingere dal vocabolario della Shoah per raccontare l’eccidio avvenuto all’interno dei confini dello stato sorto affinché eventi del genere non si ripetessero. Adesso, di fronte ai numeri e alle modalità del massacro perpetrato da Hamas al sud d’Israele, anche la parola pogrom va stretta. I sopravvissuti accolti nelle strutture alberghiere al centro del paese non hanno niente in comune con i sopravvissuti ai pogrom di un tempo, perché anche se gli allarmi antimissile suonano in tutto il paese, anche se i funerali susseguono senza sosta e i nomi e i volti della tragedia piano piano vengono alla luce, i sopravvissuti di oggi hanno un privilegio che i sopravvissuti di allora non hanno avuto: quello di guardare al futuro con ottimismo, malgrado tutto.
Anche la parola solidarietà è stata abusata in questi giorni, perché quello che spinge i civili fuori dalle case, nei centri di raccolta di beni per i soldati al fronte, ad organizzare attività per i bambini sfollati del Sud, a dare supporto al personale negli ospedali, non è solidarietà, ma una mobilitazione di massa della società civile a supporto dello sforzo bellico. È una guerra che si combatte su tutti i fronti, tutti sono coinvolti, nessuno resta con le mani in mano. La gamma delle attività in cui sono occupati i civili si ispira al senso pratico e alla creatività tipica degli israeliani: oltre a servizio babysitter ai figli dei riservisti, ai pasti caldi per i soldati al fronte, ci sono giovani mamme che si offrono di allattare i neonati rimasti orfani, camper con parrucchieri che tagliano i capelli ai soldati al fronte e addirittura una campagna di raccolta di donazioni di sangue di cani per i cani dell’esercito.
Anche la parola diserzione, minacciata come strumento di protesta contro la riforma giudiziaria, ora è una parola vuota: la percentuale della mobilitazione dei riservisti è del 130%, il richiamo della coscienza ha anticipato quello dell’esercito, anche chi non è stato convocato per problemi di salute si è offerto come volontario. I racconti di combattimenti e salvataggi eroici avvenuti nel corso del sabato nero, narrano di gente comune che ha imbracciato le armi ed è accorsa a combattere. Non è vero che in questi giorni ognuno fa quello che può, quando è la propria casa a essere in pericolo, si fa l’impossibile.
È una guerra di sopravvivenza quella che ha seguito il massacro del 7 ottobre, paragonabile a quella del 1948, ma che ha in comune con tutte le altre guerre d’Israele la determinazione a vincere. Anche se vittoria è un’altra parola inadeguata, perché con 1300 morti, migliaia di feriti e più di 200 prigionieri, questa è una guerra che Israele già ha perso ma che in fondo, nello stesso respiro, già ha vinto sul campo morale, perché la società israeliana si è rivelata più compatta e più forte che mai. È lo spirito del popolo ebraico in Israele la vera arma segreta di questo conflitto, sembra impossibile che una Nazione che ha subito un massacro di queste dimensioni, in sole ventiquattro ore si sia rimessa in piedi e si sia messa al lavoro. Israele lo sa, davanti a questa risolutezza e a questo spessore morale nessuno potrà farcela. Quando sono le parole a venire a mancare forse soltanto le metafore ci possono aiutare a raccontare quello che sta succedendo. Nel mio giardino crescono delle bellissime siepi di bouganville, che ora splendono al sole di ottobre nella loro fioritura viola. Hanno oltre trent’anni, superano i due metri e mezzo di altezza, ogni anno in primavera sono costretta a farle potare, perdono i fiori e il fogliame, si riducono a una massa di rami spogli e intricati. Ogni primavera sembra che non debbano più rifiorire. Poi, dopo qualche settimana appaiono i primi germogli, poi tornano le foglie e infine la fioritura viola. Ogni anno quando le mie siepi di bouganville vengono potate, tornano a essere più belle e più forti di prima.
Dalle piazze ai palazzi