l'intervista

A Israele serve tempo per liberare gli ostaggi. Parla Baskin, negoziatore del caso Shalit

Micol Flammini

Negoziò nel 2011 per far rilasciare il soldato Gilad Shalit, fu un accordo difficile e importante per tutto il paese. Oggi ci racconta che prezzo sono disposti a pagare gli israeliani per liberare i propri concittadini. Le trattative, l'esigenza di sicurezza e la finiestra di opportunità

Gilad Shalit aveva diciannove anni quando fu catturato da un commando di terroristi palestinesi arrivato in Israele attraverso i tunnel scavati a Gaza. Sbucarono nel territorio dello stato ebraico, attaccarono il carro armato manovrato dal soldato  che si trovava vicino al confine. Era giugno del 2006, Shalit venne risucchiato dal sottosuolo di Gaza e ne uscì nell’ottobre di cinque anni dopo, era diventato un simbolo di unità nazionale, il suo volto era stampato su spille, manifesti, magliette, i suoi concittadini organizzavano marce piene di nastri gialli e scandite dalla frase: “Gilad è vivo”. Fu rilasciato in cambio di 1.027 palestinesi, e a occuparsi della trattativa c’era Gershon Baskin, attivista, pacifista,  legato a quei negoziati anche per una questione personale; ma lo avrebbe scoperto in seguito. Baskin non ha incarichi ufficiali per la liberazione degli oltre duecento ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre scorso, ma conosce bene il gruppo di terroristi: “Il tempo sta passando – dice al Foglio dando l’impressione di contare ogni minuto, ogni parola detta al secondo, ogni istante utile per la trattativa – dobbiamo fare tutto il possibile, pensare ai civili, la finestra per le trattative si sta chiudendo: tutto va fatto prima dell’ingresso a Gaza”.

 

Baskin ha lavorato per la cooperazione tra israeliani e palestinesi, si è battuto per i diritti, le libertà e la convivenza, ha bene in testa e nel cuore ogni vita che il conflitto mette a rischio, però, se si parla di futuro, di sicurezza, non vede altre opzioni all’ingresso via terra a Gaza: “Sembra impossibile rimuovere Hamas dal potere, colpire i responsabili senza entrare. E’ rischioso, è costoso per i civili palestinesi e i soldati, ma per gli israeliani non è possibile continuare a pensare di vivere vicini a Hamas, non si può accettare che la minaccia possa tornare”, la paura di ritrovarsi di nuovo il nemico in casa, di essere ucciso, rapito, è forte. Ma prima bisogna negoziare, affidarsi ai mediatori e parlare anche direttamente: “Non so se possiamo fidarci del Qatar come mediatore, deve dimostrare di essere affidabile, ha ospitato la leadership di Hamas per anni, l’ha anche finanziata. Ora la domanda non è tanto quanto i qatarini siano affidabili, ma quanto sono efficaci e devono provarlo. Per ora i negoziati procedono in modo contorto, il Qatar parla con Hamas e con gli Stati Uniti, che a loro volta parlano con Israele. Devono parlarsi direttamente Israele, Qatar e Hamas”. Così è stato nel 2011, era Baskin a parlare con Hamas, il suo riferimento era Ghazi Hamad, portavoce del gruppo di terroristi, e  quando l’accordo su Shalit venne concluso lo chiamò la mattina presto e gli disse con entusiasmo: “La prossima volta negozieremo la pace”. Non è stato così, la casa di Hamad è stata colpita durante la prima notte di bombardamenti israeliani contro la Striscia ed era il segnale che per Gerusalemme non c’era differenza tra gli uomini di Hamas, non c’erano dialoganti e non dialoganti, tutti i membri del gruppo erano diventati un bersaglio. “E’ chiaro che i bombardamenti contro Gaza stanno avendo un impatto sulla leadership di Hamas, la situazione nella Striscia è disastrosa, ci sono morti, feriti, sfollati, Hamas deve agire   e adesso dovrebbe sentire l’urgenza di liberare gli ostaggi. Dice pubblicamente di volere un cessate il fuoco e sta a Israele prenderlo in considerazione, anche se rimane una richiesta vaga e non sappiamo neppure se verrebbe onorata”. La parola cessate il fuoco è tabù, Israele non vuole dare tregua ai terroristi, non vuole dare il tempo di recuperare le risorse, ma sa anche che deve badare alla situazione umanitaria nella Striscia e ai suoi cittadini tenuti prigionieri. Secondo Baskin gli ostaggi vanno liberati prima dell’ingresso a Gaza, sono poche le informazioni in più che i soldati potrebbero raccogliere una volta entrati: “Credo che Israele con risorse tecnologiche e umane abbia messo da parte un numero sufficiente di dettagli, però non controlla il territorio, non controlla i tunnel, ha perso fonti. Degli ostaggi non sappiamo quanti sono feriti, chi ha bisogno di soccorso, se Hamas è in grado di garantire questo soccorso e non sappiamo neppure quanti israeliani ci siano né dove siano, né in mano di chi”. 

 

Shalit, una volta liberato,  raccontò di essere stato trattato bene, e  di essere stato tenuto in un luogo segreto. Anche una delle ultime donne liberate, Yocheved Lifshitz, del Kibbutz Nir Oz, che lei stessa in un’idea di pace e convivenza aveva contribuito a fondare, ha raccontato di una rete segreta di tunnel e di aver ricevuto assistenza medica e cure. “Queste liberazioni sono un buon segnale, l’idea di rilasciare i prigionieri in base alla doppia nazionalità è un’assurdità invece. Non è accettabile per Israele, che manderebbe il messaggio che non tutti gli israeliani sono uguali. Ma neppure Hamas, per ragioni diverse, fa differenza guardando il passaporto. E’ stata messa in giro una proposta divisiva, qualcuno cerca le spaccature”.

 

Non ci sono precedenti, dice Baskin, non ci sono esempi da studiare per portare avanti la trattativa. Quel 7 ottobre, al confine, insieme a Hamas sono entrati terroristi di altri gruppi sono entrati civili non affiliati ma armati che hanno preso parte alla violenza e potrebbero aver portato via persone: nulla di simile era mai accaduto e “Hamas deve essere ritenuta responsabile”. Gli israeliani, racconta l’attivista, sono ormai pronti a pagare qualsiasi prezzo per avere la certezza di un futuro sicuro. Lo hanno sempre pagato, anche Baskin lo ha pagato. Tra i palestinesi rilasciati per la liberazione di Shalit c’erano trecento ergastolani, fra loro,  quattro erano in prigione per aver rapito e ucciso un uomo di cinquantuno anni. Si chiamava Sasson Nuriel ed era il cugino della moglie di Gershon Baskin, l’attivista racconta quanto sia stato difficile, ma in quel momento, l’80 per cento degli israeliani era d’accordo per liberare Shalit. Il 7 ottobre uno degli assassini di Sasson Nuriel scambiato nel 2011 con il soldato diciannovenne è uscito da Gaza, ha guidato un commando dell’unità Nukhba contro i kibbutz e sarebbe stato ucciso dai droni dello Shin Bet. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)