L'analisi
Il fallimento del piano di Russia, Cina e Iran contro l'occidente è cruciale per la sicurezza globale
All'indomani della riesplosione del conflitto in medio oriente le rinnovate relazioni tra le autocrazie minacciano la coesione dell'allenza transatlantica, che ora deve dimostrare fermezza e unità
Il discorso televisivo di qualche sera fa del presidente Joe Biden rivolto alla nazione ha fornito la cornice della sfida esistenziale alla quale sono sottoposte le democrazie occidentali: una sfida portata da Cina e Russia a livello globale e da paesi come l’Iran e la Corea del Nord a livello regionale. Quello che era partito come un allineamento opportunistico sta gradualmente assumendo i contorni di una potenziale alleanza, attraversata da contraddizioni e da strategie non sempre coerenti, in cui la leadership muta da teatro a teatro e da questione a questione, ma non per questo meno interessata e intenzionata a mostrare una forte coesione. Impedire la sua saldatura è un’operazione che può essere conseguita avendo la capacità di mostrare fermezza e unità non solo nei confronti degli sfidanti ma anche rispetto ai princìpi cui il fronte delle democrazie deve ispirare le proprie azioni anche nelle circostanze più critiche. Sotto più di un aspetto, il discorso del presidente americano ha mostrato sintonia con la metafora del Papa sulla “terza guerra mondiale a pezzi”, con una sottolineatura politica però diversa: ovvero la denuncia del fatto che quest’ultima è quella scatenata dalle tirannie nei confronti delle democrazie, da cui consegue la rivendicazione del dovere di queste ultime di difendersi per garantire la propria sopravvivenza.
Dopo l’Ucraina, quindi, Israele e Gaza. La successione temporale non credo sia casuale, se cerchiamo di affrontare questa terribile guerra a un livello superiore rispetto a quello locale e regionale. In termini locali, le ragioni per una recrudescenza violenta della questione palestinese sono note e sono state dette e ridette in queste settimane. Basta seguire il dibattito interno a Israele e alle comunità ebraiche sparse nel mondo. Nei giorni scorsi, l’ex premier Ehud Barak (il soldato più decorato della storia di Israele) e a inizio d’anno il direttore dello Shin Bet (i servizi di sicurezza interni) sono stati di una schiettezza esemplare. Senza volere minimamente equiparare uno stato e un’organizzazione terroristica, la polarizzazione e la radicalizzazione della questione palestinese sono il frutto di politiche miopi e arroganti, volte al tentativo di risolverla con la negazione reciproca assoluta dei diritti del “nemico”. La soluzione dei “due popoli, due stati”, sancita a Oslo nel 1993 ma in realtà affermata già dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del 1947, rimane invece la sola in grado di garantire la pace e di tagliare l’erba sotto i piedi a tutti gli estremisti. In termini regionali, l’ostentata volontà iraniana di cancellare Israele dalla carta geografica del medio oriente ha alimentato e si è nutrita della radicalizzazione, e in questo senso la mattanza del 7 ottobre – dai caratteri antisemiti e non più anti israeliani – segna un salto di qualità nel conflitto e, soprattutto, lascia intravedere la profonda penetrazione degli argomenti della propaganda iraniana all’interno della narrazione del rapporto tra israeliani e palestinesi.
La saldatura tra gli interessi di Hamas e degli ayatollah si individua però nella tempistica volta a far crollare – o a procrastinare il più a lungo possibile – il follow up saudita degli Accordi di Abramo che incorporavano tre differenti temi: l’espulsione ufficiale della questione palestinese dall’agenda regionale, la costruzione di un’architettura di sicurezza e di avanzata cooperazione economica tra le monarchie arabe del Golfo (Qatar escluso) e Israele, la riproposizione della leadership americana nella regione, questa volta non più dipendente, in prospettiva, da una massiccia presenza militare americana. Ed è quest’ultima dimensione quella che consente di salire al livello globale, quello che più ci interessa e ci coinvolge in maniera diretta, data la natura globale che l’Unione europea e i paesi che la compongono stanno assumendo rapidamente – e talvolta loro malgrado – nella stagione di ferro inaugurata dall’aggressione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022. È stato questo conflitto, che oltretutto insiste direttamente nella nostra regione, a dare la sveglia all’Europa. La natura totale della guerra russa in Ucraina ha spinto l’Unione ad assumere una postura di produttore e non più solo consumatore di sicurezza, e le ha anche fornito nuova consapevolezza della perdurante necessità della relazione transatlantica, tanto più mentre si veniva a costruire quella tra Russia e Cina, con i suoi addentellati iraniani e nordcoreani.
Occorre però riconoscere che l’apertura di un fronte di crisi in medio oriente è molto più funzionale ai disegni di chi voglia spaccare la ritrovata unità occidentale. È proprio in Medio Oriente che, storicamente, le posizioni tra le due sponde dell’Atlantico sono state più lontane ed è sulla questione palestinese che le sensibilità sono e restano assai differenti. Potremmo dire che – fatto salvo il dovuto, sincero impegno per il diritto all’esistenza e alla sicurezza dello stato di Israele (spiegato con lucida schiettezza dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz, riguardo alla Germania, ma che vale per tutta l’Europa), tutto ciò che riguarda la stabilità della regione ha visto sovente europei ed americani perseguire strategie diverse: questo al di là che tutti fossero d’accordo sull’elenco dei dossier (questione palestinese, lotta al terrorismo e alla radicalizzazione, contrasto alla proliferazione nucleare, stabilizzazione della regione, salvaguardia delle forniture energetiche, ecc.). I sospetti che la Russia abbia fornito un sostegno a Hamas in termini di sostegno politico, finanziario e organizzativo (Hamas si appoggia su server russi per la sua propaganda) e lo stia fornendo soprattutto sul piano finanziario anche a Hezbollah (che è in difficoltà per le condizioni penose in cui versa l’economia del “paese dei cedri”) sono sempre più corposi.
Il fallimento del piano di dividere l’occidente – e così di fare un regalo a Mosca, che rischia molto poco nella regione, e a Pechino, che rischia ancora meno – è quindi fondamentale per i nostri interessi di sicurezza globali. Affinché ciò avvenga, però, sono necessarie due condizioni: la prima è che americani ed europei agiscano in maniera coordinata, senza che questi ultimi siano costretti a dover semplicemente ratificare o dissociarsi da scelte già adottate a Washington. La seconda è che quel paese alla cui sicurezza siamo tutti interessati e impegnati si comporti in maniera confacente ai princìpi e alle regole che le democrazie devono sempre seguire, perché è questo che le distingue dalle tirannidi, rendendole eticamente superiori. Non sarà una cosa facile, dopo quello che è successo il 7 ottobre e quello che ne è seguito, tanto più quando in troppi, nella regione e fuori, sembrano essere accecati dalla pericolosa illusione che sia arrivato il momento opportuno per farla finita con il proprio nemico (che sia Hamas, lo stato di Israele, la Repubblica islamica dell’Iran, Hezbollah o l’egemonia americana)
È una partita tragica che giochiamo sotto gli occhi del mondo. Il mondo ci guarda per capire se le nostre pretese di costituire ancora un esempio sono fondate e se quell’ordine che stiamo cercando di difendere è davvero liberale per tutti o solo per alcuni. Assecondare queste aspettative negative e questi pregiudizi è un lusso che non possiamo permetterci, mentre è in corso quella sfida globale alle democrazie di cui proprio il presidente Biden ha parlato.