l'editoriale dell'elefantino
L'autodifesa di Israele stretta nel cappio degli umanitaristi
Jewish Lives Do Not Matter è lo slogan di chi vuole che Israele resti passivo dopo il pogrom di Hamas
Non so se Israele debba entrare a Gaza per difendersi da quelli che sono andati a sgozzare gli ebrei di confine in quanto ebrei, e se ne sono portati nei cunicoli, inneggiando al loro Dio, proclamando la librazione della terra dal Giordano al mare, un campione di un paio di centinaia, dai neonati alle quasi centenarie. Non so quasi niente e sono come tanti, ma non poi moltissimi, un’anima in pena. Ma devo constatare che a quasi tre settimane dal pogrom del 7 ottobre, l’eccidio più efferato dai tempi di Auschwitz e Treblinka, le cose si sono messe come segue. Israele colpisce dal cielo la Striscia di Gaza e usa gli approvvigionamenti di acqua, merci, carburanti e energia elettrica per imporre ai predoni il rilascio degli ostaggi. Una inaudita sofferenza si propaga in un’area densamente popolata di palestinesi, controllata e governata dai ceffi di Hamas da quattordici anni. Pesa la minaccia di trecentocinquantamila riservisti in armi alla frontiera. A Gerusalemme arrivano dichiarazioni di solidarietà dei governi occidentali in visita. Per il resto, ecco qui. Il quadro diplomatico-militare è fosco. Ribolle un secondo fronte al nord, con l’Iran che mena la danza. L’Iran dovrebbe essere sul banco degli accusati, isolato e in pericolo, perché Hamas e Hezbollah sono anche sue creature, invece è il soggetto di una coalizione internazionale della destabilizzazione del mondo che va dalla Cina alla Russia alla Corea del Nord. Avanguardie del dissenso contro i mullah manifestano per Israele o contro il terrorismo nelle città iraniane dove si fanno a pezzi libertà vita e capelli delle donne, mentre in quelle occidentali, e specie nelle Università americane dove si forma la classe dirigente di domani, va in scena la solidarietà anticoloniale con i palestinesi e in molti casi si manifesta una forte esplosiva terrificante ripresa dell’odio antiebraico e antisemita classico, al grido di morte agli ebrei. Jewish Lives Do Not Matter.
Echi tremendi della tragedia si fanno sentire nella Cisgiordania. I paesi arabi non riescono a formalizzare alcuna decisione di mediazione credibile, e nemmeno a condannare le imprese terroristiche di Hamas, che fanno impallidire l’epoca beata dei dirottamenti aerei e degli agguati agli atleti olimpici. L’Onu è dalla parte di chi soffre a Gaza, Guterres è compassionevole verso le povere vittime che hanno fatto il pogrom, e agisce per gli aiuti umanitari, quanto agli ostaggi si rimette al buon cuore di chi li ha rapiti e li detiene, rilasciando dal suo rubinetto secco, secondo convenienza, un paio di doppie nazionalità qui, un paio di mezzi morti e torturati lì, e facendo trapelare nuove generosità in cambio del fermo all’invasione di terra e della sospensione dei bombardamenti. Il pallino sembra a tratti nelle mani di quegli stessi che il 7 ottobre hanno realizzato il pogrom e deliberatamente provocato una reazione che arranca. I media sono tutti lì, con l’Onu e le Ong, a tifare per i derelitti, immemori di altre derelizioni e incuranti del significato per i capi dei derelitti della Striscia di passarla liscia. Si inneggia con toni risorgimentali all’idea dei due stati, come se da questo carnaio potesse essere ora finalmente legittimato quello stato palestinese che è la soluzione razionale che il capo del governo di Israele, l’unico a non aver fatto una guerra con i vicini, non vuole per la sua estrema, inciprignita, corrotta cattiveria. Di questo passo sarà il 7 ottobre la data di inaugurazione della casa sospirata dal valoroso popolo palestinese.
Gli americani di Joe Biden inviano due portaerei e un generale esperto in guerre urbane, lo stesso che in molti mesi ha riconquistato Mosul con l’aiuto determinante dei Curdi, al prezzo necessario ma sottaciuto di diecimila morti civili, drammatico complemento delle guerre casa per casa. Puntellano il diritto all’esistenza di Israele, e con generosa dedizione, ma consigliano prudenza, cercano di inserire bene il Qatar, altro padrino di Hamas, nella trattativa per gli ostaggi che i predoni gestiscono a loro modo. I debordamenti-stampa del New York Times ci informano sui dettagli traumatici della possibile catastrofe di una guerra tra le macerie e i cunicoli, senza risparmio di dettagli sul pericolo di perderla. E comunque affermando una verità ormai considerata indiscutibile da commentatori e analisti benintenzionati: non si può sradicare nella guerra asimmetrica un nemico intrattabile e elusivo come Hamas, punto. Passare ad altro, e aspettare. I riservisti che si esercitano e aspettano, in questo quadro, rappresentano non solo il riflesso di autodifesa democratica e patriottica di una nazione aggredita, circondata, odiata di un odio etno-razziale senza speranza, no, sono anche il corpo economico e sociale di un paese paralizzato. E alle loro spalle, si suggerisce con resoconti sempre più fitti, c’è uno scontro nel governo di Gerusalemme e tra il governo e lo stato maggiore.
A poco meno di tre settimane tutto è cambiato. Ma non a vantaggio della giustizia e dell’autodifesa degli aggrediti, degli straziati. Una rete che si chiama umanitarismo, Realpolitik, visione storica lungimirante, diplomazia o come altro volete chiamarla, tende a stringersi come un cappio sulla testa sconvolta di un paese descritto in preda all’ira incontrollata, che bisogna portare per mano alla strategia dell’attesa e del futuro negoziato, mentre chi ha perpetrato il pogrom comincia a muovere i suoi fili tra le marionette. Non si reggono troppi fronti, e quello di Israele sta diventando una scomoda verità, un intruso nello scorrere from behind delle cose, come ha ribadito il nichilista elegante Barack Obama. Non so, lo dico sul serio, che cosa deve fare Israele adesso, ma so che l’andazzo intorno al suo martirio non è quello giusto.