“Quando arrivai in Israele nel 1968 c’erano meno di tre milioni di abitanti”, racconta Nizza, ex preside della scuola ebraica di Milano (foto Ansa) 

intervista

Israele, day after. Parla Davide Nizza, ex preside della scuola ebraica di Milano

Giulio Meotti

“Quando arrivai qui a Gerusalemme nel 1968 c’era pochissimo. Il 7 ottobre ha aperto gli occhi a tutti”, racconta l'intellettuale

"Quando arrivai qui nel 1968 c’erano meno di tre milioni di abitanti, non c’era aria condizionata, c’erano solo due formaggi (‘giallo’ e ‘duro’), non c’era lo yogurt e la Coca cola perché le multinazionali non vendevano a Israele per il boicottaggio arabo. Non c’erano molti farmaci e da qui nacque l’industria farmaceutica Teva. Ci invitavano per shabbat e il lusso era una coscia di pollo, andavi in giro e non vedevi differenze, nessuno aveva la cravatta, a Gerusalemme fa freddo e le case non avevano i termosifoni, anche l’acqua era un lusso che costava carissimo, la chiudevi mentre ti lavavi i denti, di macchine ne vedevi poche e anche l’asfalto era povero. D’estate Rehov King George si liquefaceva tanto era di scarsa qualità”.

Così ci racconta Davide Nizza, che prima di essere la miglior guida italiana a Gerusalemme e l’ex preside della scuola ebraica di Milano, è un intellettuale e uno studioso segaligno che sembra uscito da un romanzo di Isaac Singer, la kippah, la sigaretta in una mano e nell’altra un libro, una rapidità verbale e mentale da far invidia ai suoi peggiori nemici. 


“Quando facevo la prima liceo classico ebbi una crisi esistenziale” racconta Nizza. “Dissi a mio padre: ‘Se sarò promosso regalami un viaggio in Israele’. Aveva un cugino in un kibbutz nel Negev. Mi disse di sì. Ho lavorato nel kibbutz e mi sono innamorato, erano anni retorici e agiografici. Mi sono iscritto a lettere antiche a Genova e nel 1968, l’anno dopo la Guerra dei sei giorni, feci il leader della propaganda ebraica con gli altoparlanti, facevamo la raccolta fondi e altre cose molto commoventi. Venni a studiare in Israele per due anni per scrivere la tesi sulla rivolta di Bar Kochba e i rotoli del Mar Morto”. Fu una full immersion: “Stavo all’università, lavoravo come rilegatore di libri all’università, dormivo e mangiavo nei dormitori, era pieno di ebrei polacchi dalla cacciata di Gomulka, ebrei cechi e tanti nuovi israeliani. L’anno della maturità decisi di riscoprire me stesso come ebreo e mi misi a osservare i comandamenti e a studiare. Lavoravo e studiavo in yeshiva e a quei tempi ancora c’era un muro netto fra università laica e scuola religiosa. E lì sono arrivato alla radice, al Talmud, ho davvero imparato l’ebraico, non quello parlato”. 

Suo padre gli pagava un viaggio all’anno, così tutti gli anni tornava a Genova per due-quattro esami e tenere in piedi la laurea in Italia. “Nel 1970 ho capito che non c’era posto accademico per me in Israele. Sono tornato a Genova, la città era in crisi e ho fatto carriera a Milano come preside della scuola ebraica, dal 1974 al 2003”. Nel 2004 l’alyah con la moglie, Cecilia, anche lei studiosa della Shoah. “Avevo già in Israele le mie figlie. Casualmente, il giorno in cui sono atterrato con il certificato di immigrato ho scoperto che il 28 di quel mese era la giornata di Yerushalaim, la riunificazione dal 1967, e che il più grande rabbino e pensatore, Rav Kook, che veniva dalla Lituania, un cervello fuori dal comune, era approdato a Giaffa, invitato a fare il rabbino capo, non c’era Tel Aviv ancora, e la data ebraica era la stessa”.

Nizza scopre un mondo informale, impossibile in Italia. “Quando arrivai qui c’erano gli intellettuali e i professori. Potevi parlare col pioniere di greco, mentre in Italia ti riceveva al massimo il suo tirapiedi. Qui invece potevi parlare con un luminare. Al tempo c’erano pochi italiani a Gerusalemme, ma di grande qualità, ebrei poveri e coltissimi. Piccolo borghesi ma che avevano tutti studiato, come il professor Raccah, un luminare di fisica. O Roberto Bachi, che venne qui dopo le leggi razziali e fu il fondatore della facoltà di demografia. Ce ne erano tanti anche nei kibbutz: mio cugino, parmigiano, arrivò in Svizzera per le leggi razziali ed è finito nel kibbutz vicino a Kissufim, a Gaza. Un kibbutz distrutto e rifondato quattro volte. Andavo anche io al kibbutz, quando venni in Israele con la mia vespa di seconda mano. Mio cugino si mise i sandali e venne a fare il pioniere. Nel 2003 andai a prendere un caffè al Moment di Gerusalemme, quando sono ripartito per Milano esplose il caffè e ci lasciarono la vita undici persone”.

Nessun pentimento, ma tanto orgoglio. “Qui ho realizzato il sogno della mia vita, anzi sto vivendo il sogno della mia vita, quella di vivere a Gerusalemme, in Israele e da ebreo, dove puoi fare quello che vuoi, incontrare persone di ogni provenienza, arricchirmi all’Opera di Tel Aviv, mia moglie è melomane, e studiare. Ci sono voci di grande livello. La vera cultura la trovi più facilmente qui che in America, dove c’è la degenerazione del politically correct e tutto è censurato, mentre qui trovi tanti liberi pensatori. Da quando ho deciso, l’anno della maturità, che volevo capire cosa significa essere ebrei, questa ricerca è un mondo infinito. Nell’Italia degli anni 60 e 70 l’ebraismo era sconosciuto. Quando facevo il liceo, il manuale Abbagnano di filosofia dedicava mezza pagina a Maimonide. Ci ho messo anni per capire che senza Maimonide non ci sarebbe stato Agostino”.

Il 7 ottobre 2023 cambia tutto. “Mi hanno impressionato le interviste nei kibbutz. Fra queste a una signora, Shifra, gran nome biblico, parla su una poltrona, ha un casco di capelli rossi, in divisa, e racconta con grande semplicità, da ufficialessa, che ha corso nel kibbutz, ha visto i macelli, più avanti non poteva andare, c’erano i cadaveri, con la sua macchina ha caricati tutti i feriti che ha potuto e fatto la spola per ore. E dice di essere madre di dieci figli. Ecco l’animus che sta vivendo il popolo. Il 95 per cento della popolazione è così. Lo speaker dell’esercito dice che stanno organizzando il reclutamento degli ebrei haredim che stanno accorrendo in massa. Sarà un grande cambiamento”. Nemo profeta in patria. “Non credo di dover parlare della leadership che ci ha portato a questo disastro, come la guerra del Kippur. Tutti qui vivono una crisi esistenziale, chi di pancia e chi di testa. La grande scommessa del sionismo politico è che ci eravamo stufati di essere governati dai goym e dovevamo tornare nella nostra patria per vivere da uomini liberi. Su questo ramo si è innestato il filone socialista di Ben Gurion, che voleva l’homo novus israeliticus, il sabra al posto dell’ebreo, la ‘luce delle nazioni’ come il sole dei popoli staliniano. Il loro problema era tenere al guinzaglio i religiosi. I religiosi, per dirla in breve, erano insensibili. Quelli autoctoni, qui da secoli, erano contrari al sionismo, per conformismo e perché nella Torah non si cambia niente. Fino a ieri era così. Poiché visto che finché c’è vita c’è divenire, l’israeliano di oggi non è quello di 40 o 80 anni fa. Intanto hanno creato una generazione di ignoranti, i Peres, i generali, le accademie. Anche i religiosi sono cambiati e sono diventati sempre più sionisti. Il trauma del 7 ottobre, il pogrom, ha aperto gli occhi a tutti quelli che usavano le formule di Peres, ‘Gaza come Singapore’”. 

Nizza torna ancora agli inizi. “Nel 1968 sentivo israeliani che mi dicevano ‘siamo entrati a Gaza, abbiamo visto morti di fame, senza fognature, abbiamo deciso di dargli tutto, perché capisci Davide così avranno qualcosa da perdere’. E io dentro di me stavo zitto. Ma poi pensavo, ‘c’è qualcosa che non quadra’. Alla radio sentivo le cronache dei fedayeen, degli attentati, delle stragi, si ispiravano alla setta degli Assassini, erano già fanatici. ‘Questo calcolo del benessere non capisce il fanatismo’, pensavo. Non è un conflitto territoriale, se lo fosse stato si sarebbe risolto, è un conflitto fra visioni del mondo. Il conflitto è ideologico e l’ideologia è idolatria: i musulmani vogliono tutto il globo, dar al Islam e dar al Harb. Una volta crollati i valori cristiani dell’occidente viviamo nella globalizzazione senza doveri, mentre i musulmani sono rimasti identitari”. 

L’Europa non cambia. “Theodor Herzl era a Parigi quando ha visto la folla contro Dreyfus, è rimasto traumatizzato, ‘morte agli ebrei’. Tutti sono colpevoli per uno, come oggi fa l’Onu, l’Unesco, tutte le commissioni. Poi c’è il problema psicologico che è la sindrome della contessa russa, attribuita a Tolstoj: nel teatro la contessa va a vedere la pièce, lei si commuove per lo zio Tom e non per il povero cocchiere che moriva di freddo fuori. Questa è l’Europa e anche l’America”.

Difficile capire la storia, vivendola. “Oggi la gente non si rende conto dei cambiamenti epocali. I miei genitori vedevano cosa succedeva nell’Italia fascista, ma nessuno di loro poteva pensare cosa sarebbe successo. Lo stesso è per gli israeliani dopo il 7 ottobre. Solo Churchill capiva cosa succedeva nel 1939 e Ben Gurion nel 1947. E oggi c’è la continuazione della guerra del 1948, la seconda guerra, la guerra per l’identità, la guerra per la sopravvivenza. Peres e Barak parlavano d’Israele come la ‘villa nella giungla’. La giungla ora è entrata nella villa, si sono svegliati. Per l’ebreo religioso c’è meno trauma, hanno visto con Zaka i pezzi dei morti. Ma loro non hanno mai creduto alle grandi ideologie, credono solo al Dio di Israele. Non hanno crisi identitarie. Molti ebrei israeliani si sono dimenticati che siamo il popolo del Libro, che abbiamo un compito, che non è quello laicista e occidentalista, ma di essere il popolo ebraico discendente da Abramo e Noè, in un mondo rovinato e indegno che ha portato al diluvio. Abramo viveva nella Babilonia di Ur dei Caldei, la capitale dell’economia, militare e scientifica, e con la sua semplice intelligenza fa un percorso nuovo per capire che gli idoli sono idoli e che la luna e le stelle non sono dei. A quel punto Dio gli parla: ‘Vattene  nella terra che ti indicherò’”. 

In Israele oggi c’è lo stesso scontro fra culture. “L’israeliano laicista rimane privo di cultura, ma ci sono sempre più matrimoni misti fra religiosi e laici, c’è un ritorno ai comandamenti, c’è sempre più interesse verso la tradizione. L’unica speranza che ha Israele è se la popolazione rinsavisce e riconosce un asse portante  che è l’identità ebraica, che non è ereditaria, che comporta che studi e che per questo nei millenni siamo andati a scuola da tre anni in su. I numeri lo dicono: sui 14 milioni ebrei del mondo, 7 milioni e mezzo sono in Israele, è uno spartiacque epocale, la maggioranza del popolo ebraico nel mondo vive in Israele e sempre più ebrei vengono da Francia, Stati Uniti etc.,..non vengono più gli ebrei libici massacrati da Gheddafi e da Saddam, ma gli ebrei benestanti e idealisti. E questo rafforza l’identità. In tutte le persecuzioni, da Nabucodonosor agli ellenisti fino ai Romani, gli ebrei sono stati massacrati. Il collettivismo ci aveva convinto ad assimilarci. L’assimilazione pensava che la legge ci avrebbe protetto. Abbiamo visto come ci ha protetto”.

Prima di oggi le sirene suonarono una volta sola nel 2018 a Gerusalemme. “Sabato 7 ottobre eravamo al tempio, i cellulari spenti, e lì risuonarono le sirene e abbiamo continuato a pregare nella tromba delle scale perché non ha un rifugio. C’è molta gente che si sposa, giovani e vecchi. Una nostra vecchia amica, un’ebrea milanese del tempo dei movimenti giovanili, si è appena sposata dopo che da vent’anni era vedova. Tutti i figli erano in divisa col mitra. Anche il rabbino  aveva il mitra. E sono felici, li vediamo per strada, si tengono per mano. Una nuora, oltre che avvocato, lavora nel riconoscimento dei cadaveri. E lei fa i turni di 12-14 ore nel centro dove le squadre cercano di trovare dna, pezzi di cadaveri. Anche lei è arrivata. E dopo due ore di canti e balli, sono tutti tornati da dove venivano. Nahum Goldman negli anni ’60 lo sentii dire all’università: ‘Non siamo mai stati bene come oggi, perché il nazismo è sconfitto, il mondo vive una grande pace, siamo tornati nella nostra terra, il nostro nemico oggi è l’assimilazione’. Negli Stati Uniti gli ebrei fanno meno di due figli, in Europa meno di uno, in Israele quattro. Vedi gente che sorride, tanti bambini, hai l’impressione, forse non a Sderot, che siamo tutti sotto la cappa della guerra, ma la vita è tutto uno ‘shalom’, è normale, c’è una quantità impressionante di organizzazioni di volontari. Avremo sempre i nemici interni ed esterni. E qui abbiamo anche Amira Hass”. Qualcuno potrebbe rispondere che è la forza di Israele. “Bene, ma allora Churchill doveva dire: ‘Apriamo le porte ai tedeschi, non ci sarà più la guerra’. L’Europa balla sul Titanic”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.