da Ramla
Con la task force che identifica le vittime di Hamas e cerca le parole per informare le famiglie
Quasi mille nuclei familiari sparsi sul territorio nazionale e a volte anche all’estero stanno ancora aspettando notizie sui loro cari. Siamo stati dai Pikud HaOref per capire come in Israele si recapita la notizia più dura: tuo figlio non è ostaggio, è morto
Ramla. Nel pieno del trauma collettivo nazionale che Israele sta attraversando dal giorno del massacro di Hamas del 7 ottobre, ogni anello della catena, militare e civile, impegnata a reagire, gestire e rispondere all’emergenza, si trova ad affrontare sfide mai sostenute prima. Una delle frasi ricorrenti è “non ho mai visto qualcosa di simile, non l’avrei nemmeno immaginato”. L’ha pronunciata, in un briefing a cui ha partecipato il Foglio, anche un alto ufficiale in servizio come riservista al Pikud HaOref, o Home Front Command, la protezione civile israeliana, la più giovane sezione dell’esercito con quartier generale in una base militare a Ramla. “Siamo di fatto – spiega il militare in pensione da due anni, che ha parlato in condizione di anonimato – il risultato della più importante lezione imparata nella guerra del Golfo. Quando, nella prospettiva israeliana, i conflitti non sono più stati quelli di prima e i civili sono diventati obiettivi, entrando a far parte del fronte di guerra a tutti gli effetti”.
L’Home Front, appunto.
Il Pikud HaOref è una protezione civile potenziata, si potrebbe dire. Il suo comandante risponde a due vertici, il capo di stato maggiore e il ministro della difesa. Protezione, allerte tempestive, linee guida per il comportamento della popolazione, ricerca e salvataggio di civili ma anche assicurare che il paese non si paralizzi in una situazione di emergenza, sono le sue principali missioni. Nelle circostanze attuali, la presenza di milioni di cittadini evacuati dalle loro case e distribuiti nelle aree ritenute più sicure rappresenta una sfida ulteriore.
E poi ci sono i morti e gli ostaggi. E le loro famiglie da informare. Tempestivamente, professionalmente, con tatto e compassione. Quasi mille nuclei familiari sparsi sul territorio nazionale e a volte anche all’estero. Da raggiungere quanto prima con notizie certe sui loro cari. Quando migliaia di terroristi di Hamas si sono infiltrati in Israele via terra, mare e aria in più di 20 località nel sud di Israele più vicine a Gaza, hanno ammazzato oltre 1.400 persone e ne hanno rapite, secondo gli ultimi dati dell’esercito, 224. Che ancora adesso sono tenuti in cattività dentro la Striscia.
Nella base militare di Shura – non distante dal quartier generale del Pikud HaOref – e al Centro di Medicina forense a Tel Aviv, i medici hanno lavorato 24 ore su 24 per identificare le vittime dai loro resti e dal Dna. In alcuni casi da minuscoli frammenti carbonizzati e inceneriti. Un impegno dovuto allo straordinario numero delle vittime. Ma anche dalla natura e dall’efferatezza degli omicidi, che ha rappresentato una sfida immane per l’identificazione di cadaveri accoltellati, bruciati, decapitati, smembrati. Brutalizzati. Al termine del processo di identificazione, entra in campo il Pikud HaOref. Che per affrontare l’impresa, ha aperto un centro nazionale operativo insieme con la polizia, gli uffici governativi e i rappresentanti delle autorità locali. “Abbiamo già dato notizia a più di 800 famiglie. E sappiamo che ci sono cento famiglie di vittime non ancora identificate a cui dovremo portare loro notizie. Sono i casi più difficili e complicati”, racconta il colonnello Hai Rekah, capo del distretto centrale Dan per l’Home Front Command. Nella task force sono stati arruolati 20 funzionari che lavorano su turni per coprire le 24 ore, 7 giorni su 7. Quando il personale riceve la notifica di identificazione del cadavere, “iniziamo a lavorare di intelligence su ciascuna vittima, per capire la sua storia”, spiega il colonnello. Si parte dall’albero genealogico. “Abbiamo un muro intero coperto di alberi genealogici – continua – di cui dobbiamo riempire i buchi, con le informazioni complete sul destino di ogni componente della famiglia. Perché magari inizialmente una persona si pensava rapita ma poi se ne identifica il cadavere. Così da limitare le visite, possibilmente a una sola. In altri casi, a essere stati sterminati sono interi nuclei familiari”. I dilemmi sono molti. Per esempio, a chi recapitare la visita e la notizia. Il coniuge o il genitore? Uno solo dei figli o tutti insieme? Senza contare che i primi funzionari non erano pronti per questo compito, “non sapevano quali parole usare ma non c’era tempo per fare formazione specifica”, racconta Rekah. “Nelle prime 48 ore – ammette – l’unica cosa che abbiamo potuto fare è stata piangere assieme alle famiglie”.