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Il dopo di ogni conflitto

L'esempio di Golda Meir e la sicurezza che viene dalla vittoria

Siegmund Ginzberg

Cessato il fuoco, arriva l’ora dei leader politici: perché le guerre bisogna saperle fare, ma anche saperle finire

"Orrore”. Fu questa la parola con cui Golda Meir riassunse i sentimenti provati nelle prime ore dell’attacco congiunto egiziano e siriano il 6 ottobre, giorno di Kippur, del 1973. Ma non si fece sopraffare, né guidare dell’orrore. Da subito, e poi ancora più chiaramente nei giorni successivi, la sua attenzione era concentrata non solo su come vincere una guerra che metteva in forse la stessa sopravvivenza di Israele, ma anche, e c’è chi dice soprattutto, su come finirla. Sul dopo. 

La guerra del Kippur guerra sarebbe durata 26 giorni, non 6 come la precedente del 1967, in cui Israele aveva trionfato. Non ricordo, nei cinquant’anni trascorsi da allora, nessun altro episodio, per tragico che fosse, più pertinente agli interrogativi che pone la guerra prodotta dal massacro di Hamas. Allora come oggi un grosso problema per Israele era l’Onu. Era sul tavolo una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato. Golda Meir fece tutto il possibile, con un intenso lavoro diplomatico, per rinviarla. Tacitando anche chi, come il suo ministro della Difesa Dayan, invece non lo escludeva (“Non mi suiciderei se si accettasse un cessate il fuoco anche senza ritiro [egiziano]”, aveva detto). Segretario dell’Onu era allora Kurt Waldheim, a cui più tardi sarebbe stato precluso l’ingresso negli Stati Uniti a causa delle foto che lo ritraevano in divisa di ufficiale nazista, non il socialista portoghese António Guterres.  

Il 19 ottobre 1973, quando ancora l’esito militare era incerto, la premier Golda Meir chiese al vice capo di Stato maggiore Yisrael Tal: “Quando finirà? Possiamo concordare su un cessate il fuoco quando ci sono decine di migliaia di egiziani sulla nostra sponda [del canale di Suez]?”. Tal le rispose che dipendeva dalle definizione degli obiettivi della guerra. Fino a quel momento erano stati chiarissimi: la sopravvivenza. Ma ora che le fortune dello scontro mutavano a favore di Israele, non erano più così chiari. Golda Meir gli rispose: “Ora vogliamo sopravvivere in futuro”. Intendendo che bisognava creare una situazione, e una pace, che garantisse la sopravvivenza a lungo termine. “La sua preoccupazione principale era come Israele sarebbe stata percepita dopo la guerra”, sostiene il suo biografo Hagai Toref. È l’autore della sceneggiatura del film in cui l’allora premier israeliana viene impersonata da Helen Mirren. E’ un ricercatore scrupoloso che ha pubblicato diversi saggi e una mole impressionante di documenti riservati sull’argomento (Golda Meir: The Fourth Prime Minister – Selected Documents, Jerusalem 2016).

Le guerre bisogna saperle fare. Ma anche saperle finire. C’è modo e modo. La Seconda guerra mondiale non poteva finire che con l’eliminazione di Hitler e del regime nazista in Germania. Un patteggiamento era escluso. Anche il Giappone dovette arrendersi senza condizioni. Ma gli americani, che pure avevano lanciato due atomiche, lasciarono sul trono l’Imperatore Hirohito, che l’aveva scatenata. Si è rivelata una decisione provvidenziale. La guerra in Vietnam finì nel 1975 con un compromesso, che sostanzialmente lasciava mano libera al Nord Vietnam anche nel Sud. Alla Cina gli Stati Uniti non fecero mai la guerra, malgrado Mao avesse inviato un milione di volontari in Corea. Quella guerra è ferma dall’armistizio firmato a Panmunjom nel 1953. Sarebbe stato forse meglio lanciare le atomiche su Corea del Nord e Cina? Non lo sostiene nessuno, che io sappia. Nemmeno i più con dei neo-con. Anche la guerra in Ucraina dovrà ben finire. Ma è pensabile che finisca con la distruzione della Russia? La guerra in Iraq si concluse con la distruzione totale del regime e l’impiccagione di Saddam Hussein

Biden, il quale a suo tempo aveva votato a favore dell’intervento, ha detto ora agli israeliani che capisce la loro “rabbia”, che è la stessa provata dall’America dopo il 9/11, ma li ha ammoniti a non lasciarsi consumare da essa. “Noi eravamo arrabbiati, cercavamo giustizia e l’abbiamo avuta, ma abbiamo fatto anche degli errori”. Non ha precisato pubblicamente quali errori. L’aver smantellato l’esercito di Saddam fornendo all’Isis truppe e generali? Essersi avventurati precipitosamente in Afghanistan e in Iraq senza aver meditato sul dopo? 

È evidente che l’America sta frenando un attacco senza quartiere a Gaza. Certo non obietta al diritto-dovere di Israele a difendersi, alla distruzione di Hamas, alla retribution, ma insiste sul come, e soprattutto sul dopo. Il suo segretario di Stato Blinken aveva avuto una discussione segreta di ben 7 ore con i responsabili militari israeliani. In pubblico era trapelato soprattutto il tema degli aiuti umanitari e del risparmiare la popolazione civile. Poi Biden ha mandato in Israele diversi alti ufficiali in uniforme a martellare sul chiodo. Ora è chiaro che gli americani hanno fatto pressioni perché non ci fosse un’invasione affrettata. Al centro della preoccupazione americana c’è il non estendere il conflitto all’Iran, a Hezbollah, sciiti e, dio non voglia, ad altri stati arabi e sunniti. La guerra chiama sempre altre guerre. Siria ed Egitto sono di nuovo in bilico. L’Arabia saudita non vede l’ora di sbarazzarsi, o perlomeno indebolire l’arcinemico Iran. La Turchia di Erdogan ha appena incrementato del 150 per cento il bilancio della Difesa, malgrado sia sull’orlo del fallimento. Senza contare il posizionamento di Cina e Russia. 

La guerra del Kippur era un’altra cosa. L’egiziano Sadat non era uno stinco di santo. In politica era entrato quando era in corso la Guerra mondiale e i suoi si volevano alleare con Hitler contro gli inglesi. Il suo obiettivo non era distruggere Israele ma riprendersi il Sinai e una rivincita sul 1967. La sua propaganda costante – e martellante, nell’Egitto di allora non erano ammesse voci dissenzienti, come non sono ammesse oggi – era di averla vinta, la guerra del Kippur, non di averla persa. Ma nel 1977 andò a parlare alla Knesset a Gerusalemme e poi concluse una pace, che dura tuttora, con Israele. Non con Golda Meir, ma con Yitzhak Rabin, un soldato, laburista come lei, che le era succeduto a capo del governo. E poi con il duro Menachem Begin a Camp David nel 1979. Tra Sadat e Golda ci fu un abbraccio. I sauditi gliela giurarono. “Io sono sempre andato alla Ka’aba a pregare per qualcuno, non a pregare contro qualcuno, ma ora prego che l’aereo che porta Sadat a Gerusalemme precipiti prima che lui ci arrivi, di modo che non diventi uno scandalo per tutti noi (arabi e musulmani)”, disse re Khaled. Fu esaudito, pochi anni dopo Sadat fu ammazzato, così come sarebbe stato ammazzato Rabin.

L’obiettivo di Golda Meir nella guerra del Kippur non era distruggere l’Egitto, e nemmeno il regime, assai più sanguinario, di Assad in Siria. Non era fargli pagare l’attacco a tradimento. Non era vendicare i propri morti. Nemmeno i piloti israeliani abbattuti e crocifissi in diretta tv nel Golan. Era vincere la guerra in modo da poter poi fare la pace da una posizione di forza, non di percepita debolezza. “Ogni nazione può vincere, o non vincere. Se, dio non voglia, noi non vinciamo, siamo perduti”, aveva detto in una riunione del governo il 10 ottobre, quando le cose sembravano ancora volgere al peggio. Evocò la sua giovinezza a Kyiv, quando c’erano i pogrom contro gli ebrei. “Abbiamo poco aiuto nel mondo. Gli ebrei non sono amati, e gli ebrei deboli sono meno amati ancora. [Se non ci mostriamo forti] saremo fatti a pezzi”. 

Le ci era voluto molto sangue freddo, molta determinazione per non farsi sopraffare dall’emozione, dalle grida di vendetta. Israel Galili, il suo principale consigliere militare, ha raccontato che nel momento più tragico Golda aveva addirittura preso in considerazione il suicidio. Essenziale, per vincere la guerra, e per il dopo, era l’aiuto americano. Nixon inizialmente lesinava. Servivano aerei, munizioni, pezzi di ricambio. Il nulla osta giunse solo il 13 ottobre. Gli fu promesso il rimpiazzo immediato di quanto avevano fino ad allora perduto nella guerra. Furono stanziati 2,2 miliardi di dollari di allora, una somma enorme, più vicina a quel che viene promesso all’Ucraina che a quanto viene promesso al governo Netanyahu. Partì un gigantesco ponte aereo non stop (oltre seicento cargo). Il premier conservatore britannico Edward Heath mise invece un embargo sulle forniture di armi ad entrambi i belligeranti, anzi negò ai voli americani di far rifornimento a Cipro. L’America era impegnata nella guerra in Vietnam, come oggi è impegnata nella guerra in Ucraina. Si dice che Nixon era sottoposto a molteplici pressioni, specie da parte delle grandi compagnie petrolifere, perché ci fosse il prima possibile un cessate il fuoco. 

“È inconcepibile attuare una risoluzione per il cessate il fuoco finché gli eserciti nemici non siano stati respinti e l’attacco spezzato”, disse Golda Meir ai suoi. “Non sarebbe un cessate il fuoco, sarebbe una resa. Non potremmo commettere un peccato maggiore che accettare una vittoria araba, che avrebbe implicazioni politiche di grave portata”. Implicazioni politiche, disse, non implicazioni militari. Era assolutamente convinta che, se Israele si fosse mostrata, agli occhi del mondo e degli arabi, debole, soccombente, non ci sarebbe stata alcuna sicurezza né alcuna pace né nell’immediato, né in futuro. L’audace Operazione Valiant con cui gli israeliani avrebbero attraversato il Canale di Suez, raggiungendo la sponda egiziana, e circondato la Terza armata egiziana che si trovava sulla sponda israeliana, consentì di far cessare la guerra. Unita all’accortezza di non umiliare più di tanto Sadat, consentì l’inizio, sia pure al rallentatore, di un processo di pace con l’Egitto, e poi con la Giordania.

Quella pace non mise fine alle guerre. Ma impedì una nuova guerra generalizzata. Sadat ottenne grosso modo i termini che aveva già proposto nel febbraio 1973 nel corso di negoziati segreti con l’intermediazione di Kissinger. Proponeva la restituzione del Sinai, l’autodeterminazione palestinese, con libere elezioni, in Cisgiordania, si impegnava a che “il territorio egiziano non serva da base ad atti di organizzazioni o individui contro la popolazione o le proprietà israeliani”, libero turismo e commercio tra Egitto e Israele. Già l’anno prima aveva espulso i consiglieri sovietici. E aveva sostituito chi tra i generali egiziani nutriva riserve. Nel giugno del 1973 Golda Meir aveva inviato, tramite il cancelliere tedesco Brandt, un segnale di ricevuto, dicendosi pronta ad incontrare gli egiziani “dovunque, in ogni momento e a qualsiasi livello”. Non se n’era fatto nulla. Un’occasione perduta. 

La guerra del Kippur era costata cara ad Israele in termini di perdite materiali e, soprattutto, umane. Israele perse migliaia di soldati. Ma, a differenza della guerra del 1948, c’erano state poche vittime civili. Sia da una parte sia dall’altra. I militari israeliani litigavano coi ministri e tra di loro. Come ora c’è chi litiga con Netanyahu perché, dando ascolto agli americani, frena l’attacco terrestre. Allora ci fu chi aveva messo in dubbio l’utilità dell’operazione Valiant e messo in guardia sui rischi in termini di perdite umane. Tra gli storici c’è chi si dice sorpreso che, a differenza di Moshé Dayan e altri, Golda Meir non abbia mai detto nulla sulla necessità di limitare il più possibile le perdite israeliane. Si limitò a dire in tv che “ogni perdita è un prezzo terribile”. Fa apparentemente a pugni con l’immagine di nonna premurosa di salvaguardare la vita dei propri figli e nipoti mandati in guerra. Ma Golda era un leader politico, non un generale, o un’anima bella. Ce ne fossero oggi! Nelle riunioni del governo difese le sue scelte. A rischio di essere tacciata di cinismo. “Sono state prese in queste settimane [dal mio governo] due decisioni drastiche, malgrado la previsione di pesanti perdite [tra i nostri soldati]. A) La decisione di concentrarsi sulla Siria, che non era semplice perché ci chiedevamo quali sarebbero state le conseguenze nel Sinai [dove ci trovavamo a combattere gli egiziani]; B) la decisione di attraversare il Canale. Non possiamo e non dobbiamo calcolare quale di queste due decisioni sia risultata in un maggiore numero di morti [tra i nostri soldati]. Quando si spara ci saranno sempre perdite, non può essere altrimenti. Ma io penso che le due operazioni principali sono state approvate e in ultima analisi abbiano salvato vite. Ci hanno messo in una posizione almeno di parità con quella degli arabi”. “Intendeva da un punto di vista politico”, commenta sicuro Tsoref. 

Non ha molto senso, e comunque è impossibile, una contabilità macabra dei lutti che il conflitto arabo-israeliano ha prodotto dal 1948 in poi. Comunque si rigirino i numeri, peraltro discordanti, è un crescendo mostruoso. Né può consolare che ci siano state molte più vittime nelle guerre inter-islamiche che in quelle tra Israele e palestinesi. Nei dieci giorni del “settembre nero” del 1970 le brigate corazzate del re Hussein si erano scontrate con i palestinesi di Arafat. Lo scontro aveva fatto 10.000, forse 15.000 vittime tra i guerriglieri di Arafat e altri gruppi rivali, che volevano instaurare una repubblica indipendente in Giordania. Tutti palestinesi o beduini, cioè fratelli dei giordani. La guerra civile libanese fece, tra 1975 e 1990, 150.000 vittime, oltre un milione di sfollati, un libanese su quattro. L’invasione israeliana del Libano nel 1982, un migliaio. La guerra civile del 1986 nello Yemen meridionale fece 10.000 morti, ignorati da tutti. Si stima che la guerra tra Iraq e Iran, islamici sciiti gli uni, sunniti gli altri, dal 1980 al 1988 abbia fatto oltre un milione di morti. Stavolta è diverso. Molto più complicato. Pesano come un macigno le vittime civili. 

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